Diabete infantile: il ricovero ospedaliero dal punto di vista del bambino

In Italia vivono circa 20.000 bambini e adolescenti con diabete mellito tipo 1 (DMT1). Molti di questi bambini, soprattutto se molto piccoli, subisco il trauma del ricovero ospedaliero: secondo l’American Diabetes Association  circa il 30% dei bambini che riceve una diagnosi di DT1 lo scopre perché colpito da chetoacidosi, una complicanza acuta che richiede un intervento urgente per evitare che progredisca fino al coma chetoacidosico.

L’esperienza del ricovero ospedaliero per il bambino e per i suoi genitori rappresenta quella che in Medicina Narrativa si definisce una “rottura biografica”, uno spartiacque tra il prima e il dopo della malattia, un evento da elaborare e integrare all’interno della propria storia.

Un recente studio norvegese – Characteristics of being hospitalized as a child with a new diagnosis of type 1 diabetes: a phenomenological study of children’s past and present experiences – ci offre l’occasione per riflettere sul significato e sull’impatto del ricovero ospedaliero per un bambino con DT1.

Lo studio raccoglie diversi tipi di dati e di testimonianze: interviste retrospettive ad adulti che sono stati ricoverati tra gli anni ’50 e ’80, quando, appunto, erano bambini; interviste a bambini ricoverati, combinati con l’osservazione in reparto e con la raccolta di fotografie scattate dai bambini, spunto per ulteriori interviste.

Lo studio utilizza un approccio fenomenologico per indagare il LebenWelt (mondo della vita). L’approccio della fenomenologia (che fa riferimento al filosofo tedesco Edmund Husserl) prende in considerazione non tanto i fatti oggettivi, ma i vissuti soggettivi, l’esperienza vissuta dal paziente. In questo senso il LebenWelt non è il mondo descritto dalla fisica o dalla biologia, ma il mondo dell’esperienza quotidiana, pre-riflessivo, dato per scontato e condiviso con gli altri esseri umani.
Il mondo che il bambino percepisce e vive, visto come lui lo vede e lo comprende all’interno del suo contesto socio-culturale.

Riprendendo un altro filosofo, Maurice Merleau-Ponty, è il mondo percepito attraverso il corpo, perché siamo prima di tutto soggetti corporei. Non si tratta di astruse divagazioni filosofiche, ma di un modo di concepire la malattia che non si limita al livello biologico, ma si sposta su un piano esistenziale. Se il nostro corpo rapppresenta la nostra apertura sul mondo, cosa succede alla nostra percezione del mondo quando quel corpo si ammala?

Per capire come un bambino percepisce l’esperienza del ricovero ospedaliero e della diagnosi di DT1 dobbiamo provare a comprendere il suo mondo vissuto. Come? Attraverso il racconto che ne fa.

Vulnerabilità e proattività

Attraverso un processo di interpretazione dei dati, più simile a un dialogo che a una fredda analisi statistica, i ricercatori hanno individuato una struttura di significato comune alle diverse testimonianze raccolte: una tensione tra vulnerabilità e capacità di agire, tra passività e attività, tra alienazione e riconoscimento.

Trovarsi piombati in un mondo sconosciuto, in cui anche il proprio corpo si comporta in un modo sconosciuto, genera ansia; in un ambiente, quello dell’ospedale, estraneo, pieno di oggetti spaventosi, con ritmi di vita distanti da quelli della vita di casa, popolato da figure professionali percepite come molto rigide (soprattutto nei racconti delle esperienze meno recenti, che si riferiscono a ricoveri in reparti di adulti); oppure amichevoli ma che spaventano perché il loro lavoro implica trattamenti dolorosi come le iniezioni e regole rigide. L’assenza dei genitori, l’allontanamento dalle consuete relazioni sociali, gli amici, la scuola aumentano il senso di abbandono comune sia ai racconti più vecchi sia a quelli contemporanei.

In questo contesto i bambini cercano di rintracciare elementi familiari o si aggrappano a esperienze confortanti: un’infermiera che li coinvolge in piccoli lavori utili, un dottore che gioca con loro o un altro paziente che condivide la stessa esperienza e li supporta.

Il tempo scorre lento e noioso in ospedale, e il corpo è debole e costringe al riposo ma i racconti descrivono anche le attività che i bambini intraprendono: esplorare l’ospedale, i corridoi, gli ascensori; correre alla finestra a guardare le ambulanze; personalizzare la propria stanza con giochi e disegni.

Nelle esperienze contemporanee emerge lo sviluppo nelle strutture ospedaliere di un modello di cura più child-friendly, in cui i bambini vengono coinvolti con attività e vengono educati a conoscere e gestire autonomamente la propria condizione. Conoscere quello che sta succedendo, grazie alle informazioni fornite dagli adulti, permette al bambino di sentirsi meno passivo. E i bambini si mostrano e curiosi e affamati di conoscere.

La pediatria diabetologica in Italia

Lo studio si riferisce al contesto norvegese, un contesto che per altro rileva significativi cambiamenti tra i racconti dei ricoveri più recenti e quelli meno recenti: qual è la situazione in Italia?

L’Italia è stata uno dei primi Paesi (nel 1987) ad istituire Strutture di Diabetologia Pediatrica (SDP) in ogni regione dirette e continua a mantenere un’attenzione particolare per l’esperienza di ospedalizzazione dei bambini con diabete.

Per esempio, il Piano Nazionale per la malattia diabetica del 2013 sottolinea che “bambini e adolescenti (0-18 anni) devono essere seguiti in ambiente pediatrico dedicato e specializzato con interventi strutturati in funzione dei diversi tipi di diabete e fasce d’età. Inoltre, questi devono essere curati in ospedale solo nel caso in cui l’assistenza di cui hanno bisogno non possa essere fornita a pari livelli a domicilio o presso ambulatori o in Day Service”. E ancora: “A questo scopo è necessario che la prevenzione, la diagnosi e la cura siano affrontate in area pediatrica, da personale dedicato e con specifica formazione.”

D’altra parte, a livello più ampio, abbiamo assistito a un vero e proprio cambiamento culturale nel modo di prenderci cura dei bambini, a partire dalla Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989, ratificata e introdotta nell’ordinamento italiano nel 1991.

Tra questi diritti non c’è solo quello di beneficiare di aiuti e di cure speciali e gratuite; non c’è solo quello di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. C’è anche un altro diritto, che rischia di passare in secondo piano: il diritto di essere ascoltati.

I bambini non sono degli oggetti passivi da accudire, ma soggetti attivi, con una propria percezione del mondo e vissuti che hanno un valore e che possono essere compresi solo attraverso il loro racconto in prima persona.

Lo studio norvegese suggerisce un passaggio importate nel modello di cura: dalla cura centrata sul paziente a quella basata sull’esperienza del paziente e sul suo mondo vissuto, anche se è quello di un bambino.

Quello che possiamo fare, da subito, come genitori, caregiver, operatori e strutture sanitarie, è assumerci l’impegno di ascoltare e comprendere le storie dei bambini, facilitandone l’espressione e la comunicazione, anche attraverso l’uso di strumenti a loro più prossimi come le favole o il disegno. Perché anche il loro vissuto ha valore e deve essere tenuto in considerazione per qualsiasi scelta terapeutica.

A cura di Francesca Memini

Bibliografia