Ecco la storia di Marco che all’impossibile non ci crede
Dove eravamo rimasti?
Eravamo rimasti a Marco, che stava preparando la maratona di New York e che sarebbe partito a giorni per testare un anno di sacrifici.
Eravamo rimasti ad allenamenti durissimi e a un diabete di tipo 1 da gestire.
Eravamo rimasti a 42 km e 195 metri di maratona da affrontare.
Marco e il suo sogno.
Marco e la sua realtà.
Ci sentiamo via email qualche giorno prima. “Come stai?”, gli chiedo. “Purtroppo non bene”, mi risponde. Ha la febbre, la tosse, un fortissimo raffreddore e sta per prendere l’aereo per gli Stati Uniti.
Non sono le condizioni migliori, ma Marco è uno che non crede nel destino, piuttosto crede che si possa – si debba – agire per direzionarlo o modificarlo.
Da lì non lo sento più fino a pochi giorni fa, e la storia che mi racconta in seguito è avvincente ed emozionante.
Arriva il mercoledì a New York City. È ammalato. Eppure il giovedì e il venerdì va a correre al Central Park. Si dice che il Central Park in autunno sia di una bellezza disarmante, ma Marco è disarmato dal fatto che fatica a percorrere 10 km.
Il sabato cerca di riposare. Si idrata bevendo 6 litri d’acqua. E la notte stranamente riesce a dormire molto bene.
“E la mattina della maratona? Come ti sentivi?”, gli chiedo.
“Ne avevo davvero voglia”, mi risponde. “Nonostante la tosse e il raffreddore avevo bisogno di capire se sarei stato ripagato di tutto l’impegno e l’allenamento”.
È una giornata di sole, stupenda. Una giornata che accoglie le ansie, i sogni e l’adrenalina di migliaia di maratoneti da tutto il mondo.
Si inizia, i piedi si muovono, le gambe li seguono. Si inizia sotto il vociare incessante delle persone che gridano il tuo nome. Non mollare, forza, coraggio, vai!
Si inizia in salita, come spesso accade nella vita. È il ponte di Verrazzano il primo tassello, poi quello di Queenboro, 20 km spezzagambe.
“Ho avvertito la sensazione di ipoglicemia, ho preso un gel e ho continuato, ma poi a 31 km e mezzo mi sono fermato. A quel punto la glicemia era invece alta. Mi sono fatto l’insulina. Credo che i valori glicemici fossero così altalenanti per un discorso anche psicologico. Ero molto stressato”.
A 31 km, infatti, Marco sente che non ce la fa più.
È stremato. Avverte fortissimi dolori muscolari. E davanti a lui mancano più di 10 km.
Come si fa a farne altri 10, quando non se ne può più?
In quella brevissima pausa – che a lui è sembrato un tempo dilatatissimo – Marco intavola un dialogo interiore con sé stesso di estrema chiarezza e onestà. Si chiede perché è lì, cosa l’ha spinto, perché lo sta facendo. Si risponde che fa parte di un cambio di vita. La maratona è la prova finale di un master in coaching. Per superare il master deve percorrerla in meno di 4 ore e mezzo.
Si ricorda il nome e la consistenza dei suoi sogni. Anche ora che il sogno è reale e durissimo e per essere realizzato ha bisogno di tutta la forza, la determinazione, la grinta e l’abnegazione di cui è in grado.
Resilienza.
Ricomincia. Un passo dopo l’altro.
Resilienza.
Sente che ce la può fare, mancano 7 km. Comincia a pensare al tempo. 4 ore e 30 minuti non di più, o sarà tutto vano. Stringe i denti, allunga il passo. Crede di avere un margine di 5 minuti, ma è un errore del suo navigatore. Si accorge che mancano una manciata di secondi.
La moglie di Marco lo segue da casa grazie a un’applicazione – lei che più di tutti sa cosa significa e quanto è costata questa maratona – e si accorge che il tempo rimasto è pochissimo. Comincia a urlare. Lo incita anche lei, perché l’energia non ha barriere e arriva anche al di là dell’oceano. Corri! Vai! Corri!
“Si dice”, mi racconta Marco, “che nella maratona di New York si corrono i primi 30 km con le gambe, 10 con la testa, 2 km si corrono col cuore e gli ultimi 195 metri con le lacrime agli occhi. Ed è vero”.
E così, con le lacrime agli occhi, il fiato tirato e il corpo a pezzi taglia il traguardo.
Ce la fa. Per 20 secondi.
È il 6 novembre 2016, Marco percorre la maratona di New York in 4 ore, 29 minuti e 34 secondi.
È il 6 novembre 2016 e nulla ha potuto far desistere quest’uomo. Non la febbre, non la tosse, non un diabete di tipo 1, non la paura di non farcela.
Patrizia Dall’Argine