In viaggio per il mondo da tre anni: Claudio e il diabete

Giro del mondo in tre anni, via terra.
Si chiama Claudio, è di Piacenza, ha il diabete e l’ha fatto.
Ha preso un sogno, difficile anche solo da immaginare e l’ha reso vero più del vero. 

Sentiremo parlare di lui?
Sì, potete giurarci. Semplicemente, perché di lui si parla già adesso, da tempo ormai. Da quasi tre anni.
Tre anni fa circa, il giorno in cui ha lasciato tutto e tutti ed è partito.
Destinazione: mondo. No, di più. Destinazione: giro del mondo in tre anni, via terra.

Significa che Claudio di aerei non ne ha visti.
Significa che Claudio ha viaggiato mangiandosi la terra e il mare e ha compreso sul serio quanto costi arrivare da un punto A a un punto B. Significa che Claudio ha sperimentato il tempo infinito e indigesto delle lunghissime tratte in autobus e delle navi mercantili. E l’oceano Pacifico l’ha attraversato così, via mare, spendendoci settimane.

Tre anni senza tornare. Cosa sei alla partenza? Cosa sarai al tuo ritorno?

Intanto, partiamo dal fuori.
“Il tuo corpo è cambiato molto?”, gli chiedo.
“Ho perso circa 8 kg, da quanto sono partito. Era peso superfluo, di cui evidentemente non avevo bisogno. Poi il corpo si è stabilizzato”. I viaggiatori su lungo raggio perdono peso. È quasi un assioma. Ritmi sostenuti, e andare e fare. E vedere e capire e apprendere e respirare. E camminare. Tanto… sempre.

“La vita è movimento. Noi siamo nati come nomadi, poi la convenzione ci ha fatto sedentari”, mi dice Claudio.

Quando lo intervisto si trova a Rio de Janeiro, io sono a Koh lipe una piccola isola della Thailandia. Skype ci regala la possibilità di ascoltare le nostre rispettive voci, ma non abbiamo abbastanza connessione per l’immagine. Eppure mi piacerebbe parlargli guardandolo negli occhi, ché magari riesco a vedere tutto quello che ha visto lui. In realtà può fare visitando il suo sito, Trip Therapy, seguitissimo da viaggiatori o aspiranti tali. Perché sul viaggio si può dire tutto e tutto forse è stato detto, ma di certo, quando è vissuto in questo modo, nel suo modo, è doveroso parlare di terapia.

Il viaggio come cura. Il viaggio che ti salva, se hai voglia di farti salvare.

Eccola la sua storia, raccontata per iscritto e tramite video. Un bancario di 32 anni, che a un certo punto dice: no, così non va bene. Questo non sono io.
Molla tutto e con lo zaino in spalla va a cercare la sua identità, ingessata da troppo tempo dentro a un modello precostituito che non lo rappresenta più.

“Ti ricordi il giorno in cui hai capito chiaramente che saresti partito?”.
“Sì, era il 28 ottobre 2013 e ho avuto una folgorazione. Ho avvertito che ero vittima di una infelicità latente di base e che le cose dovevano cambiare”.
E sono cambiate. Eccome.

Claudio mi racconta della sua esperienza in Patagonia, dove ha vissuto in maniera totalmente autosufficiente, mangiando quello che pescava e bevendo l’acqua che trovava. Mi racconta di un’esperienza fortissima come volontario in un orfanotrofio in Nepal e poi mi racconta di come la meditazione l’abbia aiutato a tenersi equidistante dal bene e dal male.

Che non si pensi, quindi, al viaggio come sogno o sospensione della realtà. Non lo è. È tutto il contrario.
È la realtà più vera, a volte spietata. Ma quando chiama, si risponde. Punto.

È giusto che ci sia anche la paura. È parte della vita, sarei incosciente se non la provassi. L’importante è comprendere il proprio limite”.

E poi c’è il diabete, che però non fa paura. Va solo gestito. Come si fa?
“Non è difficile”, mi risponde. “Quando spieghi a una persona che hai bisogno di un frigorifero per conservare l’insulina, chi ti dirà di no? Nessuno. A volte mi è capitato che l’insulina si gelasse e che dovessi buttarla, quando ho dormito in tenda sotto zero, ma niente di irrimediabile”.

L’unica cosa irrimediabile, alla fine di questa chiamata con Claudio, è evidentemente la brutta abitudine – che colpisce un po’ tutti –  di non avere il coraggio di seguire i propri sogni. Lasciare che questa “felicità latente di base” diventi una quotidianità alla quale ci si abitua, o meglio ci si rassegna.

“Ti senti molto cambiato da quando sei partito?”.
“In realtà no”, mi risponde “Molte cose che durante il viaggio ho sperimentato le pensavo già; solo che prima sembravano folli agli occhi dei più. Ora il viaggio mi ha dato ragione, mi ha mostrato che sto andando nella direzione giusta”.
Giusta, che più giusta non si può, mi viene da dire.

“Sei contento di te stesso?”, gli chiedo per concludere.
“Sì, sono contento di me”.
Sorrido, ma mi commuovo anche.

Sono in viaggio anch’io, da tempo, ma non un tempo lungo come il suo. E credo che essere contenti di sé stessi sia una benedizione, uno stato di grazia.

In tempi come i nostri dove all’insoddisfazione, alla frustrazione del vorrei ma non posso, siamo forzatamente educati da un contesto sociale che ci vuole di corsa, senza arrivare mai.

Seguite Claudio nella sua avventura e fatevi ispirare. O semplicemente, ascoltate la sua voce, che molto ha da dire, e guardate i suoi occhi che molto hanno visto e, con molta gentilezza, lo stanno restituendo a tutti noi.

 

Patrizia Dall’Argine