Avete mai pensato di descrivere il vostro diabete con una parola?
La narrazione, e in particolare quella autobiografica, può avere un impatto significativo sulla qualità della vita e sulla capacità di prendersi cura di sé. Ne abbiamo parlato con Natalia Piana, pedagogista e formatrice, esperta in metodologie e pratiche autobiografiche, nell’educazione terapeutica di pazienti affetti da diabete.
Con il Progetto C.U.R.I.A.M.O a Perugia ti occupi di diabete di tipo II: in che modo l’approccio narrativo può migliorare l’educazione terapeutica?
Nelle persone con diabete di tipo 2 e obesità, utilizziamo l’approccio narrativo come supporto alla motivazione al cambiamento di stile di vita.
Il ruolo dell’educazione terapeutica è ampiamente riconosciuto come fattore determinante nella gestione delle patologie croniche. Allo stesso tempo l’educazione terapeutica non può essere ridotta all’applicazione di schemi e programmi identici per tutti.
Non si tratta di trasmettere informazioni o competenze tecniche: è necessaria una presa in carico globale del soggetto, che coinvolga un team multidisciplinare (endocrinologi, esperti di scienze motorie, psicologi, nutrizionisti ecc) e che indaghi le barriere e le risorse di cui il paziente dispone per mettere in pratica un cambiamento.
L’educazione terapeutica, così intesa, può trarre grandi vantaggi dall’applicazione di un modello narrativo: attraverso la narrazione è possibile esplorare il mondo personale della persona con diabete, le sue emozioni, le sue esperienze, le sue motivazioni, i suoi valori (non quelli delle analisi!) ovvero tutti quegli aspetti che riguardano intimamente il modo in cui prendiamo le nostre decisioni, anche quelle che riguardano il nostro stile di vita.
E’ possibile così progettare un piano di educazione terapeutica specifico per quella persona, flessibile e declinato secondo le esigenze e i bisogni individuali.
Qual è, secondo la tua esperienza, l’utilità del modello narrativo con il diabete di tipo 1
La situazione di chi soffre di diabete di tipo 1 invece è un po’ diversa: in questo caso la narrazione serve in primo luogo per “dare un nome” alla patologia cronica. L’esordio è quasi sempre vissuto come un ricordo traumatico, il momento in cui la propria storia è andata in pezzi, e la narrazione aiuta a ricomporre un trama, trovando nuove parole per raccontarsi.
L’approccio narrativo è emerso in maniera particolare in tutti quei campi in cui la medicina Evidence-based non basta più: nell’ambito delle malattia croniche, come il diabete di tipo 1, la medicina non può garantire una guarigione dalla malattia, l’obiettivo diventa quello di offrire una buona qualità della vita alla persona che ne è affetta. Per chi soffre di diabete stare bene coincide con curarsi bene.
In questo senso ritengo che l’approccio autobiografico sia un modo efficace di aiutare le persone – in particolare quelle con diabete di tipo 1 – a individuare i propri bisogni e i sentimenti, uno strumento per esplorare e interpretare la propria storia di vita, ripercorrendo episodi che fanno parte della propria identità. In questo modo si sviluppa quella consapevolezza di sé, quel contatto con le proprie emozioni che permettono di curarsi bene e di sviluppare una nuova progettualità di vita.
In che modo viene messo in pratica l’approccio autobiografico nell’educazione terapeutica.
Da anni collaboro con un network di centri pediatrici con cui organizzo campi scuola o weekend di educazione terapeutica, affiancando il personale sanitario e/o formandolo alle pratiche narrative. Durante questi campi oltre a insegnare ai ragazzi il self-management della patologia, li invitiamo ogni giorno a scrivere di sé, delle loro emozioni e vissuti legati al diabete.
Seguendo l’approccio autobiografico della LUA (Libera Università di Anghiari), dove mi sono formata con Duccio Demetrio, tra le diverse tecniche narrative, ritengo la scrittura di sé come lo strumento più potente.
Non tutti però hanno la medesima familiarità con la scrittura e possono verificarsi delle resistenze: si comincia quindi in maniera graduale. Il punto di partenza possono essere semplici parole per raccontare il diabete, si prosegue poi con stimoli narrativi sempre più complessi e che esplorano diversi aspetti della malattia (il rapporto con gli altri, il rapporto con il cibo, ecc) fino ad arrivare al racconto dell’esordio del diabete, ovvero a mettere in scrittura il dolore.
Usiamo anche musica, canzoni, poesia, letteratura, favole e filastrocche (e non solo con i bambini), spezzoni di film e disegni, tutto ciò che attiene all’ambito delle Medical Humanities
Funziona con tutti?
Funziona bene con chiunque. In particolare, la scrittura riesce ad aprire anche laddove c’è una forte chiusura, come nel caso degli adolescenti. Ho iniziato questo lavoro nel 2003 ed è un mondo che si svela. L’approccio narrativo si fonda su un bisogno che tutti abbiamo: il bisogno di raccontarsi.
Raccontare rompe l’isolamento. La condivisione delle narrazioni in gruppo stimola la riflessività, attraverso la variazione dei punti di vista e la presa di distanza affettiva, conduce ad insight e all’elaborazione di nuove strategie.
Raccontare fa bene anche ai curanti?
Ovunque, a tutti i livelli, questo metodo porta bellezza: insieme si crea poesia. Con gli operatori sanitari si apre il backstage. Ascoltando e condividendo le storie dei pazienti raggiungono livelli di comprensione più profonda dei vissuti di malattia, imparano a conoscere la persona oltre la malattia e sviluppano strumenti di educazione terapeutica più efficaci. Essi stessi, mettendo in pratica un approccio autobiografico si occupano della qualità della vita, della qualità della vita dell’equipe stessa.
Lo stesso discorso vale con genitori: si parte dal diabete ma si parla di esseri umani, di relazioni, di sensibilità pedagogica. Ascoltare e condividere le storie personali, porta a mettersi in gioco come persone, al di là del ruolo.
Francesca Memini