Come ci si cura in Italia

Assistenza

LO STATO DELLA DIABETOLOGIA NEGLI ANNALI AMD
Come ci si cura in Italia
I nostri centri diabetologi offrono cure di buon livello, che ottengono risultati positivi sulla salute dei pazienti, migliori rispetto ad altri Paesi avanzati, come gli Usa. Lo attesta il rapporto dell’Associazione medici diabetologi, indicando anche i punti su cui si deve migliorare

Come di consueto, l’Associazione medici diabetologi ha redatto i suoi Annali, dettagliato rapporto sull’assistenza diabetologica in Italia, giunto con il 2010 alla quinta edizione (sarà presentato al V Congresso nazionale del Centro studi e ricerche-Fondazione Amd, in  programma a Firenze dal 18 al 20 novembre). Si tratta di una raccolta di dati che ha pochi termini di paragone nel mondo: report simili si fanno soltanto in Israele, Svezia e Stati Uniti, come ricorda il presidente di Amd Sandro Gentile. I criteri di elaborazione e valutazione dei dati degli Annali Amd hanno ottenuto riconoscimento ufficiale nelle linee guida della International diabetes federation, che ne hanno adottato una serie di indicatori.
Gli Annali rappresentano una fonte sempre più attendibile, con il passare del tempo, perché a ogni edizione aumenta il numero dei centri testati e dei pazienti presi in considerazione: il rapporto 2010 si basa su dati clinici relativi a una platea di quasi 500mila diabetici (circa un sesto del totale), rilevati in circa 250 servizi di diabetologia italiani (su un totale di 650), distribuiti in tutte le regioni. Il quadro che scaturisce da quest’analisi del lavoro dei centri diabetologici conferma il buon livello generale e il progressivo miglioramento complessivo della qualità della cura, senza peraltro nascondere i punti critici.

L’identikit del paziente
A tutt’oggi risulta che i diabetici diagnosticati siano intorno ai tre milioni, a cui va aggiunto il “diabete sommerso”, che dovrebbe riguardare oltre un milione di soggetti che non sanno di averlo. I diabetici italiani sono più uomini che donne: il 54% contro il 46, la maggioranza ha un’età superiore ai 65 anni (il 56,6%), mentre circa un terzo (35,4%) sta tra i 45 e i 65 e l’8% sotto i 45. Approfondendo l’analisi, si rileva che sotto i 55 anni la percentuale è del 18,8%, quasi un diabetico su cinque.
Il diabete di tipo 2 rimane naturalmente la forma largamente più diffusa (il 91,9%), ma ciò che sta mutando è il momento dell’insorgenza: quella che è stata a lungo considerata soprattutto una patologia “degli anziani”, in realtà si manifesta tendenzialmente più presto. Infatti, 4 diabetici di tipo 2 su 100 hanno meno di 45 anni (e uno su dieci tra 45 e 55), mentre l’85% è over 45. Nel tipo 1, invece, oltre il 50% ha tra 15 e 45 anni.
Il nesso stretto tra il tipo 2 e il sovrappeso è reso ben evidente da questi dati: i due terzi dei pazienti sono obesi (indice di massa corporea superiore a 27) e meno del 20% ha un peso normale (nel tipo 1, invece, l’obesità tocca solo un quarto dei soggetti). Il trattamento del tipo 2 è in prevalenza affidato a ipoglicemizzanti orali (61,3% dei casi); nel 17% dei soggetti è necessaria la terapia insulinica, nel 14,3% farmaci più insulina, soltanto nel 7,4% basta la dieta.
Suscita poi un particolare allarme la cattiva abitudine del fumo, che riguarda poco meno di un terzo delle persone con diabete di tipo 1 (28,9%), e il 17,3% di quelle con tipo 2. Sempre dannose, le sigarette sono particolarmente pericolose, soprattutto per i diabetici di tipo 1, perché accentuano il rischio di complicanze microvascolari.

Assistenza di qualità
Al fine di avere un criterio più preciso con cui valutare la qualità dell’assistenza, Amd ha introdotto quest’anno un indice (lo score Q, messo a punto da Antonio Nicolucci e dal gruppo di lavoro del Consorzio Mario Negri Sud) che consente di attribuire un punteggio, una sorta di voto, sia alle modalità assistenziali (effettuazione delle misurazioni di emoglobina glicosilata, pressione arteriosa, profilo lipidico, microalbuminuria) sia ai risultati ottenuti dalla cura (mantenimento della glicata al di sotto dell’8%, della pressione sotto i 140/90 mmHg, del colesterolo Ldl a meno di 130 mg/dl, impiego dei farmaci adatti alla protezione renale in caso di microalbuminuria). Il punteggio varia da un minimo di 0 a un massimo di 40. Sotto il 15 significa avere un eccesso di rischio di complicanze dell’80%.
“L’indice Q dell’assistenza italiana nel suo complesso risulta positivo: 24,9 nel diabete tipo 1, con i centri più efficienti al 29,1, e 24,3, con l’élite al 27,5, nel diabete di tipo 2”, commenta il vicepresidente di Amd  Carlo Giorda.
Vediamo allora che cosa significa in concreto che l’indice di qualità è soddisfacente. Primo parametro da considerare è l’emoglobina glicata (HbA1c), sia in termini di frequenza della misurazione sia rispetto ai risultati prodotti. La percentuale di pazienti che ne effettua il controllo almeno una volta l’anno è molto buona, superiore al 90% (94,7% nel tipo 1 e 92,4% nel tipo 2), e significativamente più elevata rispetto all’84% della prima rilevazione del 2006.
Per quanto riguarda i valori registrati risulta, infatti, inferiore al 7% (l’obiettivo da raggiungere per prevenire le complicanze) in un quarto dei pazienti con diabete di tipo 1 e in quasi la metà (44%) di quelli con tipo 2. Amd reputa questi risultati complessivamente buoni dal punto di vista dell’efficacia di gestione della patologia, ma ritiene necessario un ulteriore miglioramento dell’intervento terapeutico, specialmente per il tipo 1 in cui è più difficile ottenere risultati accettabili. Il giudizio resta peraltro confortante anche quando si paragoni il valore medio dell’emoglobina glicosilata italiano a quello di un Paese avanzato come gli Stati Uniti: infatti, l’indagine Nhanes (National health and nutrition examination surveys) promossa dal governativo National institute of health (Nih) e i dati della Ncqa (National committee for quality assurance) riportano che i diabetici americani hanno una glicata superiore al 9,5% in percentuali dal 20 al 40% e superiore all’8% in percentuali tra il 40 e il 50%.
“Noi curiamo tutti bene -afferma Gentile- perché sappiamo come farlo, abbiamo gli strumenti, tra cui gli stessi Annali: io credo che i nostri decisori politici dovrebbero leggerli al momento di prendere decisioni in materia”.

Ma i diabetologi non pensano affatto che ci si debba accontentare: Amd promuove gli Annali non solamente per fotografare lo status quo, ma per poterlo migliorare. Osserva infatti Giacomo Vespasiani, coordinatore dell’équipe che dal 2006 si occupa di analizzare i dati raccolti: “L’emoglobina glicosilata dovrebbe essere misurata almeno una volta l’anno a tutte le persone con diabete e anche i dati sulla valutazione del profilo lipidico e della pressione arteriosa, oggi effettuati rispettivamente nel 73% e nel 79% dei casi, indicano la necessità di interventi più incisivi, soprattutto verso questi importanti fattori di rischio cardiovascolare. Infatti, solo il 42% delle persone con diabete italiane presenta valori di colesterolo Lld inferiori a 100 mg/dl”.
Secondo Amd, occorre aumentare i controlli annuali, oltre che su lipidi e pressione, anche su reni e piedi: nel corso dell’ultimo anno, meno della metà dei pazienti aveva eseguito un monitoraggio della funzionalità renale e meno del 15% una valutazione del piede. Per quanto riguarda i valori, l’Associazione segnala la necessità di aumentare la percentuale di diabetici con valori di pressione a norma, oggi intorno al 36% per il tipo 1 e al 15% per il tipo 2.

Intervenire subito
Dal rapporto emerge l’importanza di un intervento tempestivo sul controllo della patologia e sui fattori di rischio cardiovascolare. Infatti (dati 2009), sono state registrate circa 46.600 persone con diabete di tipo 2 (l’11,2% del totale e il 12% del tipo 2) che si recavano per la prima volta in un centro di diabetologia per una visita. Ebbene, fa notare Vespasiani, “il 57% era composto da pazienti con una durata di malattia inferiore a 2 anni, ma oltre un quarto era diabetico da parecchi anni, con complicanze già in atto. Nelle persone con meno di due anni di diabete al primo accesso, il valore di HbA1c era superiore a 8% nel 38% dei casi e il 12% delle persone visitate ha dovuto essere messo in cura con l’insulina sin dalla prima visita”. “Queste persone -aggiunge Giorda- presentavano un profilo di rischio cardiovascolare elevato: pressione del sangue oltre i valori di 140/90 mmHg nel 58,6% dei casi, colesterolo cattivo Ldl superiore a 130 mg/dl nel 34,7%. E’ evidente che qualche cosa, nel sistema odierno di gestione del diabete, non funziona ancora a dovere”.
Per queste ragioni Amd ha dato vita al progetto “Subito!” (di cui Tuttodiabete ha parlato sul numero 2/2010), che mira a riportare i valori della glicemia alla normalità e mantenerli costantemente sotto controllo, sin dall’esordio della patologia o per lo meno dalla sua diagnosi, al fine di ridurre il rischio delle complicanze cardiovascolari. “Se cominciassimo a trattare in maniera rigorosa la malattia almeno cinque anni prima -ammonisce Giorda- secondo i dati dello studio Steno-2, potremmo ridurre le complicanze cardiovascolari di oltre il 40%”.
D’altra parte, come sottolinea Gentile “è facile curare una persona all’inizio della patologia e anche relativamente poco costoso. E’ molto più complesso e dispendioso occuparsi di un paziente diabetico da tempo, perché si tratta di una patologia cronica, ma non stabile, soggetta a eventi quali ictus e infarto che comportano alti costi”.

Il diabete in cifre
In Italia, le persone con diabete sono ormai il 7% della popolazione, oltre 4.000.000.
I costi sono raddoppiati in 20 anni: nel 1998, il diabete pesava sulle casse dello Stato per circa 5 miliardi di euro, pari al 6,7% della spesa totale per la sanità; oggi la stima è di 11 miliardi di euro, circa il 10% della spesa sanitaria.
Il forte aumento dei costi è dovuto principalmente alla cura delle complicanze. Infatti, secondo il ministero della Salute, il costo dell’assistenza per un diabetico aumenta da 3 a 4 volte se sussistono solo complicanze cardiocerebrovascolari o solo microvascolari e di 5 volte se sono presenti entrambi i tipi.