Diabete gestazionale: narrazioni a confronto

Come si costruisce la relazione medico-paziente se medico e paziente raccontano due storie diverse?

Spesso (anche se non sempre!) il medico si presenta come portavoce dell’oggettività scientifica, la sua opinione non è frutto di una narrazione, ovvero di una costruzione di senso dei fatti, di un punto di vista soggettivo all’interno del quale i fatti sono collocati. Bene, già questa idea di oggettività della scienza è una narrazione.

Il paziente a sua volta è portatore di una sua narrazione della malattia, che non sempre coincide con quella del medico. E in queste due narrazioni ciascuno pone l’altro, come personaggio. E allora il medico può essere un salvatore, un aiutante, un co-protagonista, ma può essere anche un nemico. E il medico che ruolo si dà? Si riconosce nella narrazione del paziente o c’è disaccordo?

Una cosa è certa: senza una narrazione condivisa non può esserci un rapporto di fiducia.

Nel caso di una patologia come il diabete, così complessa, sfuggente, costruire una relazione medico-paziente funzionale e soddisfacente per entrambi è necessario all’efficacia stessa del percorso di cura.

Ma se il medico pensa che il paziente sia il suo nemico? Se pensa che non segua le sue prescrizioni solo per fargli dispetto? E se il paziente pensa che il medico non sia in grado di cogliere i suoi bisogni? Se pensa che sia un fastidioso incompetente?

La fiducia si rompe.

Come conciliare narrazioni diverse? Il primo passo deve essere necessariamente quello della consapevolezza, della presa di coscienza della narrazione di cui siamo portatori. In questo la Medicina Narrativa può venirci in aiuto.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Bioethical Inquiry si propone di analizzare e di confrontare le narrazioni dei pazienti e dei ricercatori rispetto al dibattito scientifico sulla diagnosi di diabete gestazionale. Perché proprio questo tipo di diabete? Perché sul diabete gestazionale non c’è un consenso nella comunità scientifica e all’oggettività dei fatti, dei numeri, si accompagna ancora una certa dose di incertezza.

La narrazione della scienza: la ricerca infinita

Gli autori della ricerca, nella prima parte del loro lavoro, hanno raccolto articoli scientifici e commenti ad articoli scientifici pubblicati su testate tecniche negli anni successivi all’uscita di un noto studio sul diabete gestazionale – Hyperglycemia and Adverse Pregnancy Outcomes (HAPO) – che nelle speranze dei ricercatori doveva stabilire dei un punto fermo rispetto alla diagnosi e agli esami per il diabete gestazionale.

Questi testi sono stati analizzati con strumenti retorici e narrativi, per individuare come i ricercatori descrivevano il contesto del dibattito scientifico, come inserivano in questo contesto i risultati delle ricerche, come sviluppavano l’arco narrativo (lo svolgimento temporale della storia) e infine quali personaggi inserivano all’interno della scena.

Quello che ne è emerso è una narrazione del tipo della “quest”, la ricerca medievale del santo Graal, ma una quest costantemente differita, una ricerca infinita.

Per il protagonista incontrastato, il ricercatore scientifico, l’incertezza di oggi è essenziale per continuare il suo lavoro, che condurrà senza dubbio a dati più attendibili. Oltre all’eroe, gli altri personaggi restano sullo sfondo: solo pochi articoli citano le donne, descritte come oggetti, inerti, da gestire, al massimo da proteggere, non certo da consultare. Perfino i clinici e le ostetriche hanno un ruolo passivo, dei recipienti da riempire di informazioni, le informazioni che solo lo scienziato è in grado di fornire loro.

Il ricercatore ha fiducia nel metodo scientifico e crede nel progresso costante del sapere biomedico. L’incertezza dell’attuale stato di conoscenza per lui non è problematica, ma è essa stessa parte integrante della narrazione. Senza incertezza non c’è bisogno di ricercare, senza fiducia nel metodo scientifico non ne varrebbe la pena.

Ma l’incertezza non è certo vissuta allo stesso modo dalle donne a cui viene diagnosticato il diabete gestazionale.

La narrazione delle donne con diabete gestazionale: la ricerca di un nuovo ruolo

Nella seconda parte dello studio, vengono analizzati i blog di alcune donne cui è stato diagnosticato il diabete gestazionale: come hanno vissuto questa esperienza, come sono venute in contatto con il dibattito scientifico sulla diagnosi di diabete gestazionale? Quale ruolo si attribuiscono all’interno di questo dibattito e della loro storia individuale?

La ricerca individua due tipologie di storie, sulla base della distinzione descritta dal sociologo Arthur Frank. La prima tipologia è quella delle storie di “restituzione”, quelle in cui la paziente reagisce al caos in cui viene precipitata dalla diagnosi, con l’obbedienza alle prescrizioni del medico, con la fiducia che seguendo queste indicazioni le verrà restituito il controllo sulla sua vita, sul suo corpo e sulla sua gravidanza. Se però queste donne vengono in contatto con la mancanza di certezza del dibattito scientifico, perdono fiducia, ricadono nel caos.

La seconda tipologia, la più frequente, è di nuovo una storia di quest. Che cosa cerca una donna dopo la diagnosi di diabete gestazionale? Cerca di capire perché a un certo punto le è stato attribuito il ruolo del “diabetico”, un ruolo che non si riconosce e che non coincide con la visione che aveva di sé. Per esempio, una donna che ha sempre avuto uno stile di vita sano, attenta al suo corpo e all’alimentazione, e appena entrata nel nuovo ruolo di madre riceve la diagnosi di diabete gestazionale, si domanderà: come è potuto succedere a me? Deve esserci un errore! Ma l’errore non c’è, c’è solo l’incertezza insieme alla necessità di evitare rischi per sé e per il bambino.

E allora quello che cerca è un nuovo ruolo, un ruolo da protagonista, non da comprimario, nella storia del suo diabete gestazionale. La malattia diventa un’occasione, una sfida, un momento di crescita. E poi prende la parola, diventa narratrice, si racconta in un blog per condividere il sapere che ha acquisito, riconoscendosi fonte autorevole e affidabile, non meno delle fonti scientifiche.

Una narrazione condivisa è possibile

Lo studio conclude rilevando come per il medico sia importante riconoscere la narrazione in cui la donna si colloca per poter costruire una buona relazione di cura.

Un aspetto interessante è che queste donne, quando scoprono che esistono delle discrepanze tra le linee guida e sulla diagnosi, inizialmente perdono fiducia nel proprio medico e nella comunità scientifica, ma, una volta accettati i limiti della scienza, colgono l’occasione per riaffermare il proprio ruolo attivo come “esperti” della malattia. Possono diventare collaboratrici attive nel percorso di cura.

La narrazione della ricerca scientifica però rischia di avere un impatto negativo in termini di fiducia pubblica: i non-scienziati perdono fiducia se la ricerca si racconta come eroe invincibile, senza macchia e senza paura, impegnato nel raggiungimento di una meta tanto irraggiungibile da risultare astratta. Si crea spazio per narrazioni alternative, potenzialmente pericolose, come quelle complottistiche.

Un approccio in cui il medico, invece, presenta apertamente le incertezze del dibattito scientifico alla paziente, motiva le sue opinioni nell’ambito di una ragionevole certezza e si consulta con la donna stessa per applicare al suo specifico caso i trattamenti che ritiene più adatti, è un approccio che valorizza l’empowerment della donna con diabete gestazionale e favorisce una relazione di fiducia. Il dibattito sulle scelte da prendere, non è più quello distante della ricerca scientifica, ma un dibattito su scelte che, in ultima analisi, riguardano proprio la donna, la sua gravidanza, il suo corpo, il suo diabete.

Francesca Memini