Diabete: le narrazioni dei medici e quelle dei pazienti

Quando parlate con il vostro medico vi è mai capitato di avere la sensazione di parlare due lingue diverse? Non mi riferisco soltanto al linguaggio tecnico, che richiederebbe a volte una vera e propria traduzione, ma di una distanza più radicale di significati, di visione del mondo.
Bene, sappiate che anche al medico capita la stessa cosa.

Si tratta di una situazione frustrante per entrambe le parti: “come è possibile che non capisca quanto è rischiosa una crisi ipoglicemica?”, pensa il medico. “Come è possibile che non capisca quanto è difficile rispettare la dieta in questo momento di stress?”, pensa il paziente. Potremmo dire, parafrasando un famoso libro, “I diabetologi vengono da Marte, le persone con diabete vengono da Venere”.

Una comunicazione poco efficace, però, non è soltanto una situazione spiacevole: può avere una ricaduta sui comportamenti, sulle scelte e di conseguenza sull’efficacia del percorso di cura. Il punto è che non si tratta semplicemente di spiegarsi meglio, di fornire informazioni più chiare, quanto di comprendere le narrazioni dell’altro e provare a negoziare una narrazione condivisa.

L’oggettività della scienza, la soggettività del medico

Quando nelle scienze umane si è cominciato a indagare le illness narratives, ovvero le storie che raccontano l’esperienza soggettiva della malattia, il soggetto preso in considerazione è stato prevalentemente il paziente. Ma quali sono le narrazioni dei diabetologi?

Già, perché il medico non è un portavoce neutro della descrizione del “fatto” malattia. La scienza stessa, probabilmente, non è una descrizione così neutra e oggettiva della realtà, ma un modello esplicativo all’interno di un preciso sistema di riferimento valoriale e culturale.

Il medico ha una sua narrazione soggettiva del diabete, fatta di credenze, di significati che derivano in parte dalla cultura medico-scientifica con cui si è formato, ma anche dalla sua esperienza di vita, dalla sua famiglia, dalla sua religione, ecc.

Per esempio, negli Stati Uniti molti medici entrano in contatto con il diabete durante l’esperienza formativa in ospedale, dove le persone con diabete sono ricoverate per gravi complicanze. Conoscono il diabete nei suoi epiloghi più tragici e, per questo, anche in seguito la loro narrazione della malattia si colora di un pessimismo di fondo, come se il diabete fosse una storia con un fatale epilogo tragico. La scienza non ha un colore di fondo, si è aggiunto qualcos’altro, che va al di là della “pura” descrizione scientifica.

L’intersoggettività della relazione medico-paziente

Il bello delle narrazioni è che non sono “statiche” e sempre uguali a se stesse, possono cambiare.

Durante l’incontro clinico avviene l’incontro tra due mondi narrativi, quello del medico e quello del paziente, due mondi che possono essere anche molto distanti tra loro. Venere e Marte, appunto. E in questo incontro si crea una nuova storia: chi racconta, il medico o il paziente, modifica il suo racconto in base all’ascoltatore che si trova di fronte, in base alle circostanze e al contesto.

Se vi sembra che stia parlando di qualcosa di astratto, provate a pensare a cosa succede quando raccontate una storia della vostra vita, per esempio, come avete conosciuto e vi siete innamorati  del vostro partner: anche se avete chiaro in mente l’ordine dei fatti, le cause e gli effetti, le emozioni che avete provato, l’inizio e la fine, il racconto sarà diverso se ad ascoltarvi è vostro figlio o un vostro caro amico o il vostro psicoterapeuta; se l’interlocutore sembra non capire, se vi interrompe continuamente o se al contrario fa osservazioni profonde che vi chiedono di esplorare aspetti che non avete considerato o altri che vi emozionano particolarmente. La narrazione si costruisce nell’interazione e nel dialogo.

La stessa cosa si verifica durante l’interazione tra medico e paziente, con il racconto della malattia e della cura.
E allora da dove arriva la frustrazione?

Le differenze tra le narrazioni dei medici e quelle dei pazienti

Le differenze non si pongono soltanto sul piano della conoscenza scientifica del diabete. Non si tratta semplicemente di colmare un vuoto di informazione da parte del medico o del paziente, altrimenti non sarebbero così frustranti quegli incontri in cui il medico si presenta con grafici e dati statistici e, armato di pazienza e buona volontà, cerca di farci capire le cause e le conseguenze del diabete.

Proviamo questa volta a metterci nei panni del diabetologo.

Che cosa nel diabete spaventa di più i medici? I medici si preoccupano del diabete per il funzionamento dei reni, del cuore e di tutto ciò che può condurre a patologie più gravi e perfino alla morte. Processi interni, in gran parte “invisibili” e spesso perfino asintomatici. Da che cosa sono invece spaventate le persone con diabete? Dalle conseguenze visibili del diabete, dalle amputazioni, dal rischio di perdere la vista o la propria autonomia. Tutto ciò che riguarda il sé sociale.

Che cosa notano (e annotano) i medici sull’evoluzione del diabete? Nei medici prevale l’attenzione per i processi biologici, per i dati quantitativi, per il singolo individuo rispetto al sistema sociale in cui è inserito. La persona con diabete durante l’incontro clinico parla della sua vita, delle sue emozioni e delle relazioni sociali, correlandole ai sintomi e alla gestione del diabete. Per molti medici spesso questi sono aspetti secondari, li prendono in considerazione, ma il peso maggiore nelle valutazioni e nelle scelte viene dato ai risultati delle analisi. Un medico più empatico li comprende, ma potrebbe sentire di non avere il tempo e le risorse per affrontarli, si potrebbe sentire inadeguato o costretto dalle circostanze a concentrarsi solo sul suo piccolo orto biomedico.

Che cosa vogliono i medici? Qui diventa un po’ più complicato. Vogliono che il paziente comprenda le possibili conseguenze del diabete? Vogliono salvargli la vita? Vogliono migliorare il suo benessere? Vogliono aiutarlo a mantenere i sotto controllo i valori della glicata? Vogliono che tenga sotto controllo l’alimentazione? Avete mai provato a chiederglielo?

Il concetto di controllo, in particolare, genera parecchie complicazioni nella relazione medico-paziente: avere sotto controllo qualcosa nella cultura occidentale e in quella medico-scientifica in particolare, non è solo una questione di risultati delle analisi, è quasi un imperativo etico. Mantenere sotto controllo la glicemia, anche nel diabete di tipo 2, non dipende soltanto dal controllo sull’alimentazione, ci sono di mezzo anche fattori biologici che possono avere la meglio sui comportamenti alimentari e questo il medico lo sa. In ogni caso il controllo sul comportamento del paziente, il medico non ce l’ha. Non solo non può controllare che il paziente rispetti le sue indicazioni, ma nemmeno può sapere per certo cosa succede quando è fuori dallo studio: il medico ha soltanto i risultati della glicata. Capirete che situazione – e la relazione – può essere “fuori controllo” sotto diversi punti di vista. La narrazione prende svolte impreviste: sensi di colpa, di inadeguatezza, preoccupazione, responsabilizzazione e de-responsabilizzazione.

Come evitare la reciproca frustrazione

Un buon narratore sa costruire un ponte tra la narrazione e quello che succede nell’interazione, sa coinvolgere l’ascoltatore e ascoltando i suoi feedback dirigere la narrazione sulla base del contesto comune e condiviso.

Per esempio, riconoscendo alcune di queste differenze, il medico, invece che concentrare la sua narrazione sul funzionamento del pancreas e dell’insulina con descrizioni astratte e asettiche, potrebbe facilitare la visualizzazione di quei processi “invisibili”, descrivendone gli effetti sul corpo e sul contesto sociale.

Il paziente potrebbe premurarsi di verificare che si intendano le parole nello stesso modo: per esempio, spesso succede che paziente e medico siano d’accordo sul mantenere un livello adeguato di glucosio nel sangue, tramite uno specifico regime dietetico. Ma questo valore adeguato, è lo stesso per il medico e per il paziente? Secondo alcuni studi, spesso i pazienti, proprio quelli più attenti e controllati, puntano a mantenere valori glicemici più bassi del desiderato. L’idea che si sono fatti è che il diabete sia una malattia che riguarda l’avere “troppo zucchero” nel sangue. Di contro, l’ipoglicemia è percepita come un fenomeno più facilmente “controllabile” rispetto all’iperglicemia: “tanto mi basta mangiare una mela!”.  Al medico (e anche a me) viene la pelle d’oca: l’ipoglicemia può avere conseguenze ben più gravi e nefaste! L’enfasi sul controllo può non essere sempre così positiva.

Insieme, medico e paziente potrebbero stabilire che cosa vogliono ottenere, definire un obiettivo condiviso sulla base del sapere scientifico del medico, ma anche delle priorità della persona che vive quotidianamente con il diabete; un’aspettativa comune di come dovrebbe proseguire la storia di cura. In questo modo diventa più probabile che tale meta venga raggiunta, ma anche che, nel frattempo, entrambi, medico e paziente, non si trovino in una situazione comunicativa frustrante.

 

A cura di Francesca Memini

 


 Bibliografia
Loewe R, Schwartzman J, Freeman J, et al. Doctor talk and diabetes: towards an analysis of the clinical construction of chronic illness. Soc Sci Med 1998;47:1267-76
Freeman J, Loewe R  Barriers To Communication About Diabetes Mellitus J Fam Pract. 2000 June;49(6):507-512
Life Versus Disease in Difficult Diabetes Care: Conflicting Perspectives Disempower Patients and Professionals in Problem Solving
Vibeke Zoffmann
Marit Kirkevold