La montagna.
Prendete la cima di una montagna.
Prendete il desiderio di conquistarla, quella cima.
E poi prendete un gruppo di uomini e donne, che – diabete o no – si prendono la responsabilità di renderlo reale.
Ho sempre guardato la montagna con grande rispetto, un rispetto reverenziale.
E ogni volta che nella mia vita, mi sono apprestata a salirci, su una montagna, ricordo uno stato di attesa, la sera prima, misto di ansia e gioia. Ma ancor più di turbamento: lei così grande, maestosa, imponente, io così piccola…
Cosa avranno pensato loro, le persone del DAM (Gruppo Diabete e Alta Montagna), quando hanno raggiunto la vetta del Monte Bianco (4.812 m) nel 2013?
E poi ancora, una volta arrivati sulla vetta del Dom di Mischabel (4.550 m) nel 2014, sul Bishorn e altre cime del Vallese nel 2015, sul Cevedale e 8 delle 13 cime che lo contornano nel 2016, e sul M. Elbrus (5.642 m) nel 2017?
Una dopo l’altra, le cime si sono fatte attraversare da queste persone. E quando parliamo di montagna parliamo di passione travolgente o di nulla.
Di un progetto, la cosa che mi interessa conoscere, sono le origini; così come di tutti i passi che vengono fatti per arrivare a una meta, quello verso il quale rivolgo gran parte della mia gratitudine e attenzione è il primo.
“Questo è un gruppo spontaneo di persone con diabete, di famigliari e di medici diabetologi che amano camminare ad alta quota. È nato da un’idea del professore Aldo Maldonato, un uomo con la vitalità e l’energia di un ragazzino e un carisma eccezionale”, mi racconta Marco (che col suo diabete di tipo 1 ha sempre praticato la montagna ad altissimo livello).
Ecco come nasce un progetto, con una persona che lo pensa e un fil rouge che dà forma a nuovi capitoli di una narrazione più complessa che parla di fatica – perché la montagna, non giriamoci troppo intorno, è fatica– e di libertà, perché camminare in montagna – non scherziamo – è pura, purissima libertà.
Libertà di mettersi gli sci, le pelli di foca e le ciaspe e di voler conquistare la cima innevata dell’Etna (ultima impresa del 2018), grazie alle preziose competenze del geologo Giovanni Galatà, siciliano trapiantato a Trento da molti anni (anch’egli col diabete di tipo 1). Galatà ha studiato il percorso per gli inizi di marzo, cambiandolo in itinere a causa dei fortissimi venti, ma garantendo l’arrivo in cima. L’Etna in inverno dev’essere un’avventura che necessita di malleabilità e spirito di adattamento.
E anche il diabete richiede le stesse caratteristiche. Ho avuto modo di leggere il racconto di chi ha partecipato a questa impresa. È lampante l’importanza della condivisione, la comprensione e l’arricchimento in termini di conoscenza di ciò che accade al proprio corpo sotto sforzo.
La possibilità di poterne parlare serenamente con le persone presenti.
E poi c’è il conforto che sa dare la montagna quando si libera il respiro ad alta quota, soprattutto quando non si è da soli a liberarlo, il respiro. Quando è condivisa la fatica, e le mie gambe e i miei polmoni sentono qualcosa di non uguale, certo, ma molto simile ai tuoi, è già in atto qualcosa di importante, che anzi etichetterei come essenziale.
“La fatica non piace a nessuno, a prescindere, ma apre uno spazio, e innesca un circolo virtuoso. Oggi faccio 600 metri, ma domani magari ne faccio 1.000. Cresce l’autostima e ne guadagni in consapevolezza”, mi dice Marco Peruffo. “Il diabete rappresenta, per forza, una motivazione micidiale. Ti riporta inevitabilmente alla concretezza del qui e ora… E la montagna invece la considero l’università dell’umanità”.
C’è quel primo passo da fare, questo è certo.
Quello che dal divano ti porta in strada. Quello che dalla strada ti porta alla montagna.
Quello che dal “ho il diabete, non potrò mai farlo” ti porta a “ho il diabete e posso farlo”.
Se si ha curiosità verso i primi passi, è buona cosa contattare il DAM, per farsi suggerire, ad esempio, che direzione possono prendere tutti gli altri passi che seguono il primo.
Ad esempio verso le cime di Lavaredo, che tra il 19 al 22 luglio, sarà la prossima impresa, di questo gruppo ad alta quota.
C’è da augurare loro il meglio e uno sguardo rigorosamente rivolto verso l’alto.
A cura di Patrizia Dall’Argine