L’ABC del cuore sano

Anno 21 – n.3

Ottobre-Dicembre 2004

AGGIORNAMENTO

CHI NON SI CONTROLLA RISCHIA DI PIU’

L’ABC del cuore sano

Molti studi dimostrano che tenere sotto controllo glicemia, pressione e colesterolemia riduce drasticamente le possibilità di complicanze cardiovascolari. Ma diverse indagini epidemiologiche internazionali lanciano l’allarme: i principi della prevenzione sono applicati in misura insufficiente

prof. Paolo Brunetti Direttore Dipartimento di Medicina Interna Università degli Studi di Perugia

Numerosi studi clinici randomizzati giunti a compimento negli ultimi dieci anni (dei quali potrete trovare ampio resoconto su questo e sul prossimo numero di “Tuttodiabete”) hanno dimostrato in modo inequivocabile che il controllo ottimale dei valori di glicemia, di pressione arteriosa e di colesterolemia è in grado di ritardare in modo sostanziale o addirittura di prevenire le complicanze micro e macrovascolari del diabete mellito. Allarma però il fatto, attestato da una autorevole e recente indagine epidemiologica americana e da altri studi europei e italiani, che strategie di prevenzione di sperimentata efficacia siano troppo raramente attuate e messe in pratica. Ciò significa che soltanto in una piccola parte della popolazione diabetica sono accuratamente e regolarmente monitorati fattori di rischio che le odierne conoscenze scientifiche e cliniche consentono di limitare e controllare con certezza. Purtroppo, in mancanza di un controllo costante e intensivo, il rischio che un soggetto diabetico vada incontro a complicanze cardiovascolari è rilevante. Infatti, come conseguenza degli elevati valori di glicemia e della frequente associazione con iperdislipidemia e ipertensione arteriosa i diabetici hanno un rischio di sviluppare complicanze cardiovascolari da due a quattro volte superiori rispetto ai non diabetici.
Sono molto significativi i risultati di un recente studio condotto su oltre mille pazienti con diabete di tipo 2 e oltre milletrecento soggetti non diabetici, divisi in due gruppi a seconda che avessero subito oppure no un infarto del miocardio e seguiti per sette anni: è stato dimostrato che i diabetici che non avevano sofferto di infarto del miocardio avevano un rischio cardiovascolare, in termini di mortalità e di insorgenza di un nuovo infarto, eguale a quella dei non diabetici che avevano già subito un infarto.
In altri termini, i soggetti diabetici, per il semplice fatto di essere tali, hanno un rischio di morte per malattia coronarica non minore di quello dei non diabetici che abbiano già avuto un infarto e che perciò stesso sono maggiormente soggetti a una recidiva. Logica conseguenza di queste fondamentali osservazioni è l’attuazione, in tutti i pazienti diabetici, anche se apparentemente indenni da malattie cardiovascolari, di una strategia di controllo sistematico di tutti i fattori di rischio analoga a quella da tempo in atto per i soggetti non diabetici che abbiano già subito un evento cardiovascolare.

Obiettivi terapeutici
Da queste considerazioni nascono gli obiettivi terapeutici dettati dalle varie società medico-scientifiche, da comitati di esperti e gruppi educazionali. Secondo l’American Diabetes Association (Ada), gli obiettivi glicemici sono dati da valori di emoglobina glicata (HbA1c) inferiori al 7%, da valori di glicemia pre-prandiale compresi fra 90 e 130 mg/dl e da valori post-prandiali inferiori a 180 mg/dl (ma inferiori a 140 mg/dl, secondo la Idf, International Diabetes Federation).
Ancora l’Ada, concordando con il settimo Report del “Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure” (il cosiddetto studio Jnc 7), raccomanda un goal di pressione arteriosa inferiore a 130 mmHg per la pressione sistolica e a 80 mmHg per la diastolica. In proposito va notato che fino al 2003 l’obiettivo di pressione diastolica era di 85 mmHg.
Secondo il “National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel III” (Ncep-Atp III), il livello di colesterolo totale deve essere ridotto al di sotto dei 200 mg/dl, il colesterolo Ldl deve essere ridotto al di sotto di 100 mg/dl nell’uomo e di 55 mg/dl nella donna. La soglia-limite per i trigliceridi è stata individuata in 150 mg/dl.
Gli obiettivi indicati devono essere raggiunti con un uso appropriato di farmaci anti-ipertensivi e ipolipidemizzanti da associarsi al trattamento insulinico o ipoglicemizzante orale. Per tutti i diabetici al di sopra dei sessant’anni è anche indicato un trattamento anti-aggregante con aspirina a bassa dose.

Teoria buona, pratica meno
Malgrado l’evidenza derivante dalle indagini epidemiologiche e dagli studi clinici, è sorprendente vedere come gli obiettivi terapeutici che consentirebbero una sostanziale prevenzione delle complicanze micro e macrovascolare del diabete siano scarsamente rispettati. Una analisi accurata di come viene oggi attuato il controllo dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, viene dagli Usa, sulla base di un confronto fra i dati di due indagini nazionali sullo stato della salute: la terza “National Health and Nutrition Examination Survey” (Nahnes III), condotta fra il 1988 e il 1994, e l’indagine successiva, condotta fra il 1999 e il 2000 (Nahnes 1999-2000). L’indagine ha interessato 1265 soggetti diabetici di età superiore ai vent’anni nella Nahnes III e 411 soggetti nella Nahnes 1999-2000.
La prevalenza di diabete diagnosticato è risultata sia pur lievemente superiore negli anni 1999-2000 (5,9%) rispetto al periodo precedente (5,4%). L’indice di massa corporeo o Bmi è aumentato significativamente negli anni 1999-2000 da 29,9 nella Nahnes III a 32,3 e parallelamente è aumentata la prevalenza di obesità dal 41,6 al 54,6%. Si riduce invece l’età alla diagnosi da 50,7 a 46,7 anni, a conferma della generale tendenza alla anticipazione dell’età di insorgenza del diabete di tipo 2.
Non è stato rilevato alcun progresso nel controllo metabolico, giacché la percentuale dei diabetici analizzati nel Nahnes 1999-2000 con valori di emoglobina glicata inferiori al 7%, era pari al 37% e quindi non significativamente diversa rispetto alla Nahnes III. Anche per quanto concerne il controllo della ipertensione arteriosa, la differenza fra le due indagini non è quella che ci si attenderebbe sulla base della evidenza raggiunta negli studi clinici. Infatti, la percentuale di soggetti con valori pressori inferiori a 130/80 mmHg era negli anni 1999-2000 soltanto di poco superiore (35,8%) rispetto a quella del periodo precedente (29%). Parallelamente, si è osservata una lieve diminuzione dei soggetti con pre-ipertensione (da 23,8 a 28,2%) o ipertensione manifesta (da 40,4 a 42,9%). Tutte le differenze riscontrate non raggiungono la significatività statistica. Solamente nel controllo del colesterolo si è registrato un netto miglioramento fra le due indagini. Tuttavia, negli anni 1999-2000, ancora il 50% degli uomini e il 53,8% delle donne avevano ancora livelli di colesterolo totale superiore ai 200 mg/dl. Complessivamente, la percentuale di soggetti diabetici che avevano raggiunto nella Nahnes 1999-2000 gli obiettivi glicemici, pressori e lipidemici era appena del 7,3% della popolazione totale, con soltanto un lieve e non significativo incremento rispetto alla percentuale registrata nella Nahnes III (5,2%).
Dati forse meno organici e accurati di quelli provenienti dagli Usa sono stati raccolti anche in Europa e in Italia, a testimoniare della difficoltà con cui, malgrado l’aumentata disponibilità di efficaci farmaci ipoglicemizzanti, ipolipidemizzanti e anti-ipertensivi, vengono raggiunti gli obiettivi terapeutici compatibili con una adeguata protezione nei confronti delle complicanze cardiovascolari. E’ perciò importante che anche nel nostro Paese partano campagne di sensibilizzazione per l’applicazione integrale di efficaci protocolli terapeutici con lo scopo di ottenere il primo controllo dei cosiddetti “ABC”, dove A, B e C indicano rispettivamente la emoglobina glicata, la pressione sanguigna (blood pressure) e la colesterolemia.

RIDURRE IL COLESTEROLO LDL FA SEMPRE BENE

Se è cattivo, abbattiamolo

Studi epidemiologici eseguiti in diverse popolazioni hanno indicato da tempo l’esistenza di una relazione positiva continua fra malattia coronarica e concentrazione plasmatica di colesterolo Ldl, senza che vi sia un valore di soglia al di sotto del quale una concentrazione più bassa non sia associata a un rischio inferiore. Qualunque sia il livello di partenza del colesterolo Ldl, una sua riduzione di 39 mg/dl (1 mmol/l) comporta una riduzione del 50% del rischio coronarico. Ciò vale anche per i pazienti diabetici, con la differenza che il rischio di coronaropatia è da 3 a 5 volte superiore rispetto ai non diabetici. L’effetto di una terapia ipocolesterolemizzante con statine sulla prevenzione della malattia coronarica è stato indagato in diversi studi randomizzati che includevano sottogruppi non troppo numerosi di pazienti diabetici (Studi 4S, Care, Lipid, eccetera). Da questi studi si desume che la riduzione del rischio coronarico indotta dalle statine è nei pazienti diabetici dello stesso ordine, se non superiore, a quella osservata negli altri gruppi di pazienti. L’efficacia della terapia con statine in corso di diabete ha trovato tuttavia la dimostrazione più piena nell'”Heart Protection Study” (Hps) che ha arruolato ben 6000 pazienti diabetici con o senza malattia coronarica o altra malattia occlusiva arteriosa pre-esistente. Lo studio, condotto con 40 mg di simvastatina, ha dimostrato che una riduzione media del colesterolo Ldl di 39 mg/dl durante un periodo di trattamento di 5 anni, ha diminuito il rischio di eventi vascolari maggiori di circa un quarto, in questi pazienti, in una misura perciò non diversa da quella osservata nei non diabetici e indipendentemente dalla pre-esistenza o meno di una malattia arteriosa occlusiva, dall’età, sesso, concentrazione lipidica e controllo glicemico. Questa riduzione del rischio è stata di fatto osservata anche abbassando il livello di colesterolo Ldl da valori inferiori a 3 mmol/l (116 mg/dl) a valori inferiori a 2 mmol/l (77 mg/dl).
Anche nello studio Ascot (“Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial”) il trattamento con 10 mg/dl di atorvastatina in oltre 2500 pazienti diabetici ha determinato una riduzione media del colesterolo Ldl di 1.1 mmol/l e una parallela diminuzione, altamente significativa, del 36%, durante 3.3 anni di follow-up, di eventi coronarici maggiori. Sulla base di questi studi l’indicazione a iniziare una terapia con statine deve essere determinata non soltanto sulla base del valore di colesterolo Ldl plasmatico e della eventuale pre-esistenza di una patologia arteriosa, ma semplicemente sulla base del rischio individuale calcolato di sviluppare un infarto del miocardio, un ictus o la necessità di un intervento di rivascolarizzazione. (P.B.)

L’IMPORTANZA DI UN REGOLARE AUTOCONTROLLO

Mai scordarsi la glicemia

Tutti i più importanti studi epidemiologici, dei quali daremo un dettagliato resoconto sul prossimo numero di “Tuttodiabete”, concordano nell’indicare che l’esposizione a valori elevati di glicemia, sia a digiuno sia in fase post-prandiale, rappresenta un fattore di rischio continuo per lo sviluppo di complicanze sia microvascolari (retinopatia, nefropatia, neuropatia, eccetera) sia aterosclerotiche (cardiopatia coronarica, malattia cerebrovascolare, vasculopatia ostruttiva degli arti inferiori).
Da qui la necessità di intervenire con uno stretto controllo della glicemia in ogni forma di diabete e con la maggiore tempestività possibile nel corso della storia naturale della malattia, con l’intento di interrompere la sequenza patogenetica che con vari meccanismi conduce dall’iperglicemia al danno micro e macrovascolare. (P.B.)

UN’INSIDIA IN PIU’ DA CUI GUARDARSI

Ipertensione, per favore vai via

Il rischio già elevato di morbilità e mortalità cardiovascolare dei soggetti diabetici è aumentato ulteriormente dalla concomitanza di ipertensione arteriosa. D’altro canto, numerosi studi hanno dimostrato che un controllo ottimale della pressione arteriosa riduce considerevolmente il rischio di micro e macroangiopatia. Oltre dieci anni or sono lo studio Shep (“Systolic Hypertension in the Elderly Program”) aveva dimostrato come la terapia anti-ipertensiva fosse efficace nel ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari nel sottogruppo di pazienti diabetici. Più recentemente, lo studio Syst-Eur (“Systolic Hypertension in Europe”) ha dimostrato una riduzione degli eventi e della mortalità cardiovascolare nel sottogruppo di diabetici trattati con un calcio-antagonista, la nitrendipina. Nello “United Kingdom Prospective Diabetes Study” (Ukpds), pazienti con diabete di tipo 2 e ipertensione furono randomizzati a due diversi livelli di controllo pressorio. Il gruppo sottoposto a un controllo più stretto (valori di pressione inferiori a 150/85 mmHg) presentarono, rispetto al gruppo con valori più alti di pressione arteriosa, una riduzione del 24% di tutte le complicanze e una riduzione del 32% della mortalità riferibile al diabete. Nello studio Hot (“Hypertension Optimal Treatment”) i soggetti partecipanti furono randomizzati a tre livelli di controllo pressorio. Nel sottogruppo di pazienti diabetici, quelli assegnati al livello più stretto di controllo (valori inferiori a 130/80 mmHg) mostrarono la più bassa incidenza di eventi e di mortalità cardiovascolare. Il settimo Report del “Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure” (Jnc 7) considera normali i valori di pressione arteriosa inferiori a 120/80 mmHg e definisce come pre-ipertensione i valori di pressione sistolica compresi fra 120 e 139 mmHg e di pressione diastolica fra 80 e 89 mmHg. Ancora secondo il Jnc 7, il rischio di eventi cardiovascolari raddoppia a ogni incremento di 20/30 mmHg al di sopra di 115/75 mmHg. La raccomandazione del Jnc 7 è quindi che nei soggetti diabetici ipertesi si debba mirare a valori inferiori a 130/80 mmHg e ciò richiede abitualmente una combinazione di due o più farmaci. (P.B.)