La maratona di New York. 42 km, un uomo, le sue gambe, la sua determinazione e un diabete di tipo 1.
42 km e 195 mt. Di corsa.
Eccola, in breve, la descrizione di ciò che accadrà il 6 novembre dall’altra parte dell’oceano.
La maratona di New York, un must per i maratoneti di tutto il mondo. Un evento imperdibile – da fare, almeno una volta nella vita – per tutti coloro che si mangiano la strada con gambe e piedi. Per tutti coloro che macinano km e che sono abituati alla fatica su lungo raggio. Per coloro che hanno il diavolo addosso e devono correre.
La maratona di New York chiama. Il maratoneta risponde.
Ma se uno non è un maratoneta?
Ad esempio, Marco non è un maratoneta. O meglio, lo è diventato in un anno di assidui allenamenti. E tra qualche giorno sarà a New York a testare il suo sacrificio. A testare sé stesso.
C’è in più un particolare: Marco ha il diabete di tipo 1 dall’età di 20 anni. Mi racconta che è stato concomitante alla morte di sua madre. Un periodo di grande stress, lo shock della perdita e una predisposizione genetica sono stati un mix micidiale.
Marco non si lascia abbattere. “Non ho accolto il diabete come situazione debilitante, l’ho vissuto come stimolo per migliorare”.
Poi però le cose cambiano. Lui appassionato da sempre di sport estremi – sub, apnea, parapendio – si vede limitato in tutto.
Non puoi più farlo, dicono i medici.
È una fase molto dura della sua vita, ma si risolve con l’incontro di un ennesimo medico che stavolta, però, apre uno spiraglio: puoi fare tutto Marco, ma ti devi controllare.
Nel frattempo lui scopre il kayak e si innamora di questa disciplina, diventando, tra l’altro, istruttore. Siamo quindi di fronte a un atleta a tutto tondo. “Ma la maratona”, mi dice, “è qualcosa di completamente diverso, perché la componente psicologica è fondamentale”.
Marco ha iniziato a correre solo un anno fa. La maratona è l’ultimo tassello di un importante percorso di vita. Si tratta, infatti, della prova finale di un master in coaching.
Un master che prevede molte prove, una delle quali è stata una settimana di sopravvivenza all’interno di un bosco. Eppure la maratona di New York, 42 km e 195 mt in almeno 4 ore e mezza, resta “l’esame” più importante, il più arduo, l’ultimo.
Marco vuole diventare un motivatore, ma prima deve auto-motivarsi.
Deve soprattutto, mi dice, combattere quella parte interiore che agisce contro di noi e che sussurra che non possiamo farcela, che non potremo ottenere un certo risultato, che è inutile e vano provarci.
“Quando mi sento così, significa che devo ancora lavorare duro in due ambiti: l’allenamento e l’atteggiamento. È importante visualizzare tutto quello che accadrà in positivo, averlo chiaro nella mente, vederne nitidamente i passaggi e i contorni”.
Il pensiero positivo è qualcosa che accompagna Marco da sempre. Si descrive come un tipo combattivo, solare, che accetta i propri limiti, ma a cui piace l’idea di spostarne i confini. Un po’ più in là, ancora più in là e improvvisamente il limite diventa opportunità.
Come si prepara, in un anno, una maratona di questo calibro?
“Con molto, molto lavoro mentale. La maratona porta dolori forti, muscolari, ti manca il fiato, non senti le gambe a quel punto prosegui solo con la testa, con la tua volontà”.
Gli chiedo se abbia mai avuto paura durante la preparazione.
“Certo”, mi risponde. “Sono andato in ipoglicemia e mi sono spaventato. E poi c’è anche una fase di sconforto emotivo non indifferente. Quando corri, aggiungi pian piano km, ma arriva un punto che non riesci ad aggiungerne più…per lungo tempo. Il corpo si deve adattare, ma il tuo scoramento è profondo”.
Un anno di allenamenti, tempo sottratto alla famiglia, al lavoro, allo studio. E in più il diabete da controllare.
Ma Marco non si è fermato. Fermarsi non si può, davvero. E questa è l’unica certezza.
“In questi casi, quando mi sento perso, rivolgo il mio sguardo verso persone del calibro di Alex Zanardi, un atleta e uomo straordinario. Una persona che non si è soffermata su ciò che ha perso, ma su ciò che restava”.
Mentre Marco mi dice questa frase comprendo quanto profonda e sincera sia la sua determinazione. Capisco quanto sia importante affrontare la vita a muso duro. Non crogiolarsi in alibi, che non aiutano, non arricchiscono, solo e malamente ci scusano.
Bisogna, proprio bisogna, provarci. Mettersi in moto. Rischiare.
E in caso di sconfitta: guardare ciò che resta, non ciò che si è perso.
Essere responsabile dei propri sogni.
Tra poco, dopo un anno di sacrifici – il più duro della sua vita, mi dice – Marco affronterà la maratona di New York. Lui con diabete di tipo 1: ma non ci confondiamo. “Io non sono la mia malattia”, afferma. “Il diabete lo vivo come un’interferenza e la vita ne è piena. Tutto quello che ho voluto fare, l’ho fatto comunque”.
Tra poco saranno 42 km e 195 mt. Correndo.
E un traguardo che non assomiglia per niente a una fine, quanto piuttosto a un nuovo, straordinario inizio.