In questi anni, su Diabete.net, abbiamo raccontato molte storie di sportivi. Per passione, per agonismo e per salute. Abbiamo raccontato di imprese epiche, uniche, ma anche di quanto unico ed epico ci sia nell’allenamento costante, nella perseveranza, nell’accettare di perdere per poi ripartire.
Praticare sport va di pari passo con quello stile di vita sano che, in presenza di diabete – ma anche in assenza – deve essere abbracciato e perpetrato.
Fare sport fa bene e questo è un fatto. Ma come destreggiarsi tra i vari picchi e cali glicemici?
Negli ultimi anni la tecnologia ha cambiato i presupposti, offrendo attraverso nuove e importanti soluzioni la possibilità di essere monitorati costantemente.
Ho pensato di intervistare due sportive – due donne a dir poco vulcaniche – per farmi raccontare il loro rapporto col sensore, rispetto agli sport che praticano.
Una, è Valentina Visconti, presidentessa dell’Associazione Diabete Sommerso Onlus (www.diabetesommerso.org), che ha realizzato una cosa straordinaria; ovvero ha fatto sì che le persone col diabete non fossero escluse dalla subacquea e dall’emozione impagabile dei fondali marini. Vi invito a leggere l’intervista fatta a Valentina qualche tempo fa, per capire come questa donna straordinaria, partendo da una semplice domanda: “Perché non lo posso fare?”, abbia creato un mondo.
L’altra donna vulcanica è Francesca Bottani, detta Stitch, una sportiva a tutto tondo che ha provato l’acqua allo stato liquido e allo stato solido. Infatti, oltre a voler diventare istruttrice di subacquea, scia dall’età di 3 anni, e la prima gara l’ha fatta a 7.
Insomma, due sportive che hanno molto da dire e alle quali ho chiesto quale fosse il loro rapporto col sensore. Ecco le loro risposte.
Quali sono i benefici che hai sperimentato col sensore relativamente allo sport che pratichi? Ovvero, la vita prima e la vita dopo.
Valentina: La cosa fantastica che fa un sensore è indicare il trend della glicemia, che è l’elemento più importante da considerare quando ci si prepara alle immersioni subacquee. Il protocollo di immersione prevede che ci si facciano 3 glicemie per accertare i livelli glicemici e il loro trend. Al momento purtroppo i sensori (nessuno escluso!) non possono essere considerati totalmente affidabili prima di fare immersioni: l’ambiente caldo e umido sotto la muta, che può cambiare anche repentinamente in freddo, il sudore, l’acqua e forse anche altri elementi non meglio identificati, fanno “sbarellare” i sensori, a volte anche in modo molto importante, e quindi il valore glicemico va sempre verificato. Nonostante ciò, il trend rimane affidabile ed è quindi molto più facile prepararsi ad una immersione in sicurezza.
Francesca: Un po’ come per la subacquea, ma sicuramente in maniera meno impattante, anche le giornate sulle piste da sci, vuoi per l’altitudine, vuoi per la possibilità di incontrare temperature glaciali, fan sì che si abbiano diverse difficoltà nel percepire “a sensazioni” i cambiamenti glicemici. Mettiamoci in più che il tuo glucometro decide di salutarti con un allarme per l’eccessivo freddo sopportato, nonostante tu l’abbia premurosamente avvolto nel tuo tessuto più caldo: è lì che inizi un poco ad adirarti (e la cosa, almeno per me, non fa bene alla glicemia). Soprattutto se sei appena arrivata in pista per allenarti e devi rifugiarti in una baita per poterlo riattivare. Da quando ho iniziato a portare i sensori questi problemi sono diventati un lontano ricordo (o quasi, anche loro ogni tanto desistono ai -30°C di Cervinia). La tendenza della glicemia, assieme agli allarmi preventivi (che se attivati nella maniera corretta possono avvisarti anche mezz’ora prima della discesa o della salita della tua glicemia), hanno fatto sì più e più volte che evitassi valori glicemici bassi, così da potermi godere a pieno gli allenamenti e concentrarmi sugli obbiettivi della giornata.
Com’è cambiato il rapporto col diabete?
Valentina: Con il sensore è tutto più semplice. Potendo avere sempre la glicemia sott’occhio, è sparita la necessità di dover “indovinare” la glicemia in tutti quei momenti in cui non è possibile misurarsi e di conseguenza sono sparite le preoccupazioni legate alle incognite sulla glicemia. Il trend aiuta a decidere se è il caso di mangiare qualcosa, di fare un po’ di insulina, di sospenderla. Il sensore mi ha molto aiutata anche a capire l’effetto di alcuni cibi e di alcuni tipi di sport sulla glicemia, così come mi rende evidente che arrabbiarmi non mi fa bene! Grazie al sensore posso prevedere meglio gli effetti dei miei comportamenti. Insomma, con il sensore il mio rapporto con il diabete è diventato più stretto e più costante. Anche più sincero: gli errori nella gestione del diabete non possono essere nascosti… non solo al diabetologo, ma neanche a me stessa!
Francesca: Anche se non ho più la possibilità di mentire, sia al mio diabetologo che a me stessa, se mi permetto qualche sgarro, che io lo voglia ricordare o meno, è tutto tracciato. Nonostante il mio Young-shil (sì, gli ho dato anche un nome) sia uno spione, ha fatto sì che il mio rapporto con il diabete migliorasse. Ovvio, non è come non averlo, ma il mio sistema in combinata, tra sensore e microinfusore, ha fatto sì che la mia glicata raggiungesse livelli che non vedevo dalla mia luna di miele. Inoltre, i fastidi derivanti da ipo e iperglicemie (capogiri o fortissime emicranie) sono quasi completamente spariti. È importante sottolineare che questa “sparizione” non è dovuta ad una “assuefazione” alla tecnologia, il mio sesto senso di ragno diabetico (scusate sono una fan MARVEL) non si affievolirà mai, ma è più dovuta a un non dover più combattere con sbalzi glicemici (sia crescenti che decrescenti). Il sensore mi è stato estremamente utile anche nel capire come gestire diversi alimenti, come la famigerata pizza. La gestione dei pasti, soprattutto quelli nei periodi festivi. E anche se, in particolari momenti come quelli di studio, allenamento o lavoro, sia necessario avere qualche unità in più in circolo o infonderne qualcuna in meno.
Come ti senti in termini di sicurezza?
Valentina: Con il sensore mi sento molto più sicura. Talmente tanto, che quando per qualche motivo non ce l’ho, è come se mi mancasse qualcosa. Gli allarmi sono fondamentali per non discostarsi troppo dal range “normoglicemico”: anche se detesto quando li sento suonare (è davvero un suono che mi entra nel cervello!), mi consentono di rendermi conto della situazione di scostamento glicemico e di porvi rimedio. Di notte sono fondamentali. Da quando ho il sensore, vado a dormire più serenamente, perché tanto so che in caso di squilibrio il sensore mi sveglierà
Francesca: Posso dire di dormire sonni più tranquilli (chi dorme con me un po’ meno). Gli allarmi (paragonabili a veri e propri antifurti) sono estremamente fastidiosi ma compiono a pieno il loro dovere. Scherzi a parte, la chiarezza che si ha nella gestione della glicemia quando si indossa un sensore è sensazionale. Credo che chiunque lo provi difficilmente possa pensare di ritornare alle sole misurazioni capillari.
Che valore dai a questo tipo di tecnologia?
Valentina: Questo tipo di tecnologia ha davvero cambiato la mia vita, così come quella di molte persone. Nel quotidiano innanzitutto, di cui ho già parlato sopra, ma anche “a lungo andare” perché un maggiore controllo glicemico significa allontanare o addirittura scongiurare le complicanze e consentire quindi un futuro migliore. Cos’altro di più si può chiedere alla tecnologia?
Francesca: L’arrivo di queste novità nella mia vita ha apportato dei cambiamenti tali da potermi permettere di fare cose che mai avrei pensato di poter fare. Se penso a quando ho avuto l’esordio, ovvero nel lontano 1999, e mi metto a paragonare le miscele di protaphane e actrapid che dovevo creare (piccolo chimico MODE: ON), i dolori subiti dai miei poveri polpastrelli per gli intensi controlli capillari, le levatacce dei miei e successivamente le mie, mi viene solamente da essere immensamente grata per tutta questa tecnologia. L’aiuto fornitoci da questi mezzi fa si che, sia nel quotidiano che nel futuro, tutte le possibili e spiacevoli complicanze che accompagnano questa patologia possano non attuarsi. Credo che tutte queste “attenzioni”, forniteci dalla scienza, facciano sì che non si possa concretizzare il reale valore di questi mezzi tecnologici.
C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere?
Valentina: Ho un solo pensiero che mi turba, ma non così tanto da rinunciare ai sensori, ed è il fatto che oramai ne sono dipendente. Non amo le dipendenze, di nessun tipo (anche se sono dipendente dal cioccolato e – come tutti ormai – dal telefonino… per fortuna non fumo e bevo poco alcol!), e come accennato sopra, nel momento in cui non ho il sensore mi sento a disagio. Questa estate, per una serie incredibile di eventi, mi sono trovata a dover stare senza sensore per 4 giorni durante i quali erano previste diverse immersioni (anche 4 al giorno). All’inizio è stato smarrimento totale, ma ben presto ho ripreso le abitudini dell’epoca pre-sensore e mi sono resa conto che in fondo si può vivere anche senza. Sono stata molto felice di indossare un nuovo sensore alla fine della vacanza, ma sono stata ancora più felice di essermela cavata bene anche senza per qualche giorno. Questa esperienza mi ha riappacificato con il mio terrore delle dipendenze ed ora so che indossare un sensore è una libera scelta che continuo a fare perché mi semplifica la vita e non una scelta obbilgata.
Francesca: Mi ritrovo a condividere il pensiero di Vale, la dipendenza da una qualsiasi cosa è sbagliata e deteriorante. Uno dei “vanti” che abbiamo noi diabetici è di essere tra quelle poche persone al mondo in grado di riconoscere dei particolari segnali che ci vengono inviati dal nostro corpo e attivarci di conseguenza. Nonostante l’immensa comodità e l’aiuto inestimabile che ci forniscono queste nuove tecnologie, dovessi ripercorrere questa tumultuosa via, non mi lancerei di pancia su questa componente all’avanguardia, ma farei sì che prima i miei sensi (di ragno diabetico) si sviluppino, per far si che, in caso la tecnologia mi abbandonasse, io sia in grado di saper gestire la mia “specialità” bene durante la sua assenza.
A cura di Patrizia Dall’Argine