Sono sano perché sono malato potrebbe essere il titolo di un suo spettacolo, o di una canzone, o il tormentone di un monologo. Potrebbe essere molte cose visto il personaggio eclettico, talentuoso, di fervida immaginazione che ho il grande piacere di intervistare, Alberto (www.albertopatrucco.it).
“40 anni di militanza”, mi dice, “e per lo meno non ho un esame fuori posto”.
E questo è certo. Col diabete si è tenuti ad un autocontrollo alimentare, a rispettare alcune regole, a darsi dei limiti, riassumendo, a volersi bene.
L’esordio, avvenuto quando aveva 19 anni, si è manifestato in maniera violenta e spaventosa – mi racconta – portandolo a 10 giorni di coma.
Erano anni differenti, non c’era nemmeno un reparto di diabetologia nel piccolo ospedale della Brianza che lo aveva accolto, salvandogli la vita; lo scenario proposto dai medici, al suo risveglio tutt’altro che consolante.
Una sfilza irragionevole di non puoi e non devi. Prima potevi, adesso non puoi più. Il diabete è davvero un limen, una soglia. La vita senza di lui, la vita con lui.
“E tra l’altro la vita con lui, non è che poi sia più bella di quella che avevi prima, anzi” mi dice ridendo, come se si parlasse del rapporto con un vecchio amico dal pessimo carattere o dell’amore irriducibile verso la donna sbagliata.
Eppure, “è il diabete che mi ha portato a fare questo lavoro”, continua.
Sembra un paradosso; verrebbe da pensare che un fardello di tali dimensioni conduca inevitabilmente lontano dai riflettori, perché la gestione del palco è una di quelle cose che hanno a che fare con l’improvvisazione, l’emotività, la lucidità, la presenza. Decisamente no: ipoglicemie e iperglicemie non sono cose da palco.
“Ho sempre cercato di tutelarmi, ma qualche volta mi sono dovuto confrontare con momenti sgradevoli. Per fortuna avevo la protezione dell’ironia”
L’ironia come protezione. Se sei umorista puoi fingere di star male quando stai male per davvero. Puoi ridurre a finzione la verità. A me questo sua affermazione fa tanto riflettere. Mi fa pensare alla comicità come portatrice di risata e alla risata come portatrice di protezione.
E la chiacchierata con lui è tutta scandita da uno humour aggraziato, sottile, un modo garbato e carismatico di raccontarsi. Il suo forsennato amore per i dolci – ai quali era totalmente disinteressato – nato immediatamente dopo l’esordio del diabete. A ribadire quel sentire comune, quell’umanità che ci unisce tutti, per cui se non possiamo avere una cosa, la vogliamo.
E poi tutti quegli aghi, le siringhe di vetro, perché 40 anni fa, così ci si destreggiava.
E poi quell’annaspare, a 19 anni, in una vita senza l’appiglio di un progetto, senza il conforto di una strategia. Non avere propriamente il senso di sé. Del resto, a quell’età, si chiede quello, di essere giovani e basta, sgangherati e basta, di non avere grandi concretezze o certezze, o un mezzo e un luogo in cui far fiorire il proprio talento. Normalmente a quell’età si temporeggia, ma non Alberto.
Questo disastro di diabete lo rinvigorisce, gli dà la forza di provarci. Si dice: “Non può essere tutto qui” e si affaccia al mondo del cabaret. Si va a prendere, Alberto, il suo palco, la sua fetta di mondo in questo mondo.
È il suo contrappasso. La sua personale risposta al vecchio amico dal pessimo carattere e all’amore irriducibile verso la donna sbagliata.
Canta. Scrive. Crea.
Canta che ti passa, ci viene detto da sempre, e non è solo un modo di dire, è celata un’antica e profonda saggezza in quelle parole.
Si respira saggezza nella risata. Saggezza nella creazione.
“Non sempre sei sufficientemente sobrio per sostenere la liturgia che impone il diabete” mi dice.
Lo immagino.
Immagino che non sempre si sia sufficientemente lucidi – o come dice lui, sobri – per le azioni quotidiane, per la realtà, per la liturgia, che il diabete impone, ma “ce la si può fare… Ce l’ho fatta io che ho una vita scombinata da sempre”.
Lui e il suo diabete di tipo 1 – “Meglio di tipo 1”, afferma ironico, “per una questione di classifica, quanto meno” – che lo porta a dire che è sano perché è malato, una frase controversa, se vogliamo, ma con un sottotesto che suggerisce altro: che non si è mai normali del tutto, ad esempio, che è la diversità che ci qualifica, non la normalità, ad esempio. E che qualunque diversità ci capiti in dote, possiamo essere in grado di prenderla e farla diventare valore aggiunto della nostra vita.
Canta. Scrivi. Crea. Ad esempio.
Questo potrebbe essere un modo.
A cura di Patrizia Dall’Argine