L’attività fisica è uno dei pilastri della terapia del diabete di tipo 2: lo troviamo scritto e prescritto ovunque. Ce lo dice l’OMS, ce lo dicono le società scientifiche, ce lo dicono le associazioni di pazienti e ve lo diciamo continuamente anche noi, su questo sito.
Ripeterlo non fa male, certo, ma tra il dire e il fare, c’è di mezzo… che cosa c’è di mezzo? Bisognerebbe proprio capire che cosa c’è di mezzo, per passare dall’informazione all’azione, dalla trasmissione di sapere al cambiamento di comportamento.
L’indagine può cominciare anche dall’esperienza dei professionisti sanitari, perché quello dell’attività fisica è un tema “spinoso”, non solo per i pazienti, ma anche per i curanti. Lo rivela una ricerca olandese, che ha analizzato le narrazioni di 24 professionisti sanitari (infermieri, infermieri di diabetologia, fisioterapisti e medici di medicina generale), che si occupano di DT2.
L’attività fisica infatti, al di là di quello che dice la medicina, è parte dell’esperienza vissuta dai pazienti. Sia che la pratichino sia che non la pratichino, l’attività fisica fa parte di quello che in termini tecnici si chiama lebenswelt, il mondo vissuto quotidianamente, l’insieme delle esperienze e dei significati inconsapevolmente attribuiti all’esperienza e condivisi nel proprio contesto sociale.
Le persone con DT2 hanno una loro idea di che cosa sia l’attività fisica, hanno accumulato esperienze diverse in merito, le proprie e quelle del proprio contesto sociale, attribuiscono un valore all’attività fisica rispetto a altre attività. Allo stesso modo l’attività fisica fa parte anche del lebenswelt dei curanti, che possono essere amanti dello sport, atleti o pessimi sportivi. Nel setting clinico i professionisti della cura si trovano a dover navigare tra questi diversi mondi.
Dai racconti dei professionisti sanitari sono emersi due principali temi critici: la comprensione (o l’incapacità di comprensione) del comportamento dei pazientie la responsabilità del curante rispetto all’attività fisica svolta (o non svolta) dal paziente.
Comprendere (e non comprendere) il comportamento del paziente
Come si fa a comprendere gli altri? Possiamo solo fare appello al nostro personale bagaglio di esperienze, alla nostra storia e a quelle che abbiamo ascoltato e procedere per somiglianze e differenze. Succede così che per alcuni curanti è più facile comprendere le difficolta di una persona con DT2, mentre per altre è nettamente più difficile.
Per esempio, tra i professionisti intervistati nello studio, 3 hanno dovuto abbandonare la loro attività sportiva preferita per motivi di salute, scoprendo così di odiare la palestra. Una cosa è giocare a pallavolo o a pallacanestro, un’altra è correre su un tapis-roulant! Altri 2 hanno raccontato le proprie difficoltà nel conciliare la vita familiare con l’attività fisica. Un medico ha raccontato di quanto le ha letteralmente “fatto male” quando ha iniziato a correre, riferendosi ai dolori muscolari dopo i primi allenamenti.
Chi lo ha provato sulla propria pelle capisce meglio che è importante concentrarsi su obiettivi realistici, procedere un passo alla volta, cercando di integrare l’attività fisica nelle attività quotidiane. E magari essere guidati da qualcuno di esperto. Molti di questi professionisti si rendono conto che gli obiettivi proposti dalle linee guida spesso sono davvero irraggiungibili per i pazienti.
Altri professionisti, tra gli intervistati in particolare i fisioterapisti, pur riconoscendo le differenze del contesto socioculturale ed economico, sembrano perfino indignati dallo scarso impegno dimostrato dai pazienti. “Ogni tanto entro in conflitto con queste persone, perché hanno un approccio totalmente diverso dal mio su come si mantiene in salute il corpo… Io credo che se siamo stati dotati di un corpo in salute, dobbiamo trattarlo con rispetto, ovvero non dobbiamo imbottirci di cibo e dobbiamo bruciare il giusto quantitativo di calorie” racconta John.
Molto più pesante e ostile il punto di vista di Marcel: “Hanno i soldi per un gigantesco schermo piatto, ma non per la palestra. Danno una bassa priorità all’attività fisica e questo mi irrita. Certo che hai problemi con le ginocchia e le caviglie, sei 30 kg in sovrappeso! Ma non era necessario che diventassi così grasso…”
Più in generale, gli intervistati manifestano emozioni contrastanti tra la comprensione per le difficoltà affrontate dal paziente – che spesso deve anche occuparsi della dieta, dei farmaci, smettere di fumare, oltre che gestire la vita quotidiana e pertanto mette l’attività fisica all’ultimo posto tra le sue priorità – e la frustrazione di vedere il proprio lavoro tenuto poco in considerazione. E così si arriva al secondo tema: quello della responsabilità del curante.
Non è mia responsabilità
I professionisti sanitari si sentono combattuti: da una parte sanno che è loro compito curare i pazienti e l’attività fisica fa parte della “cura”; dall’altra, sono i pazienti a dover cambiare il loro stile di vita. E allora spesso concludo che bisogna imparare a “mollare il colpo”, che loro hanno fatto la loro parte, hanno cercato di far capire l’importanza dell’attività fisica, ma da lì in poi la responsabilità è del paziente.
È giusto o sbagliato questo atteggiamento? Impossibile da stabilirlo in senso assoluto, tutto dipende da cosa si intende per cura e per responsabilità individuale. E su questo i curanti si interrogano.
Spesso la frustrazione dei professionisti sanitari non è verso i pazienti, ma verso l’impossibilità di agire sul contesto sociale in cui questi vivono, o verso il sistema sanitario con i suoi limiti di tempo, gli appuntamenti distanti e la fissazione sui protocolli invece che sulle persone.
Vorrebbero fare di più che offrire consigli e informazioni e alcuni lo fanno anche, organizzando nel loro tempo libero dei gruppi di cammino.
Ma anche così spesso, non funziona. I professionisti intervistati con una carriera più lunga sperimentano un cambiamento nella loro motivazione: “all’inizio vuoi salvare vite: c’è così tanto che si può fare! Ma poi ho imparato che non è mia responsabilità”.
Cosa serve? Consapevolezza, sintonia e tempo
Sapere cosa fare non equivale a sapere come farlo, né tantomeno a riuscire a farlo. E questo vale sia per i pazienti sia per i curanti. Un professionista della cura sa che l’attività fisica è fondamentale per le persone con diabete di tipo 2, ma non sa come riuscire a far sì che la persona cambi il suo stile di vita. L’attività fisica non è una pillola da somministrare.
Quale può essere un buon modo di prendersi cura dell’attività fisica del paziente? Gli autori della ricerca citano il concetto di “tinkering”, un processo in cui il paziente e il curante insieme si sintonizzano rispetto alle linee guida, correggendole e adattandole alla vita quotidiana del paziente. Questo implica l’ascolto attento delle storie del paziente e la valutazione costante di ciò che funziona e di ciò che non funziona nella relazione di cura.
Ma tutta la ricerca ci rimanda alla necessità da parte del professionista di essere consapevole dei propri pre-giudizi, delle esperienze e dei valori che potrebbero avere un impatto nella relazione con il paziente. Non solo per evitare gli attriti, ma anche per non andare incontro a processi di demotivazione e frustrazione.
I gruppi di cammino sono una pratica da incoraggiare, ma il personale sanitario dovrebbe poter ricevere una specifica formazione: medici e infermieri non sono preparati per essere anche “allenatori”, ma potrebbero esserlo.
A cura di Francesca Memini