Braccialetti blu: l’esperienza narrativa della diabetologia di Chieti

“Tutto è nato spontaneamente, quasi per caso. All’inizio c’era solo un gruppo di 4 pazienti con microinfusore, che avevano bisogno di confrontarsi e avere informazioni. Oggi siamo più di 70 Braccialetti blu!”. Racconta così Alessia Quirino, infermiera presso l’ambulatorio Diabetologia ospedaliera della Clinica medica di Chieti e madrina dell’iniziativa Braccialetti Blu, un progetto che coniuga la medicina narrativa, l’utilizzo della tecnologia (whatsapp) e i gruppi di auto-aiuto, per favorire l’empowerment del paziente con diabete.

Il nome è ispirato alla fiction televisiva “Braccialetti rossi”, ma declinata al blu, colore adottato internazionalmente per il diabete. I braccialetti, quelli veri, li hanno realizzati i pazienti stessi, all’uncinetto, come segno distintivo del gruppo che ha acquisito una sua identità, sempre più solida e coesa.

Il progetto ha di recente ricevuto anche i primi riconoscimenti pubblici: il premio del “Quality day” della Asl Lanciano Vasto Chieti, assegnato dalla giuria popolare delle associazioni di volontariato e il premio speciale assegnato da Cittadinanza Attiva.

Abbiamo chiesto ad Alessia Quirino di raccontarci il suo punto di vista sull’iniziativa.

Alessia, hai da sempre utilizzato un approccio narrativo con i pazienti con diabete. Qual è secondo te l’importanza delle storie in diabetologia?

Quando i pazienti vengono in ambulatorio, prima e dopo la visita medica hanno un colloquio con me. Il mio compito non è semplicemente quello di trasmettere informazioni affinché imparino a gestire la terapia e lo stile di vita. Per avere informazioni su come funziona un microinfusore, un commesso del Mediaworld forse potrebbe essere più utile di me!

Le informazioni devono essere personalizzate e per farlo è necessario conoscere la storia del paziente. Per questo quando accolgo un paziente cerco di capire sempre almeno tre aspetti: che cos’è per lui la malattia, che cosa sta vivendo in quel momento e qual è il suo linguaggio. Il paziente ha bisogno di sentirsi a casa, bisogna parlare la sua lingua, a volte anche in dialetto, non certo in “medichese”.

Come è nata l’idea dei Braccialetti Blu?

Dopo la visita in ambulatorio rimaneva una sorta di buco. Si controllano gli esami, si assegna la terapia, si forniscono i consigli per alimentazione e stile di vita e… “ci rivediamo tra sei mesi”. Non bastava, c’era un bisogno da colmare.

Le persone con diabete hanno bisogno di un supporto continuativo, soprattutto nelle prime fasi dopo la diagnosi, quando devono imparare a gestire l’alimentazione, a riconoscere una crisi ipoglicemica in arrivo, a convivere con la malattia nella vita quotidiana. Così è nata l’idea, semplicissima e naturale, di costituire un gruppo su whatsapp, dove i pazienti potessero condividere i propri dubbi. Io ero all’interno del gruppo in modo da poter rispondere o trasmettere le loro domande al medico responsabile dell’ambulatorio, il dottor Ermanno Angelucci, con il quale potevano poi discutere durante la visita successiva.

Poi piano piano i Braccialetti hanno cominciato ad aiutarsi tra loro, soprattutto a darsi supporto morale. Perché i bisogni dei pazienti con diabete non riguardano soltanto la terapia, il controllo della glicemia o l’alimentazione. “Io alle 3 di mattina ho chiamato e Alessia c’era”, ha scritto nel gruppo una ragazza che mi ha chiamata mentre era prossima alla crisi ipoglicemica.

Un altro esempio dalla chat: “ho il diabete da un anno e mezzo! È iniziato così velocemente che non ho capito niente, sono andata in ospedale con una glicemia a 670 e mi sono svegliata dopo un sonno profondo… non sapevo cosa fosse, ero molto spaventata ma grazie a lei Alessia ho superato tutto, lei ha creduto in me dal primo istante, mi ha incoraggiato e sostenuto, ora sto bene seguo la terapia e non mi arrendo mai. Grazie a voi, braccialetti, mi sento sempre piu sicura”

Così hanno avuto inizio anche gli incontri del gruppo “dal vivo”, le pizzate e gli incontri di formazione.

E le ricadute positive sulla salute non hanno tardato ad arrivare: tutti i ragazzi hanno migliorato la glicata e hanno acquisito sicurezza e autonomia nella gestione della malattia

Qual è il ruolo dell’infermiere con il paziente diabetico?

Non si tratta di sostituirsi al medico nella diagnosi o nell’assegnazione della terapia. Ogni professionalità ha un suo ruolo ben preciso e l’infermiere si colloca in un punto strategico della relazione di cura.

Spesso il paziente si gela di fronte al medico: non dice tutto quello che dovrebbe, si autocensura, non fa le domande che vorrebbe. Sono io, come infermiera, che riesco a intercettare questi bisogni inespressi o informazioni (per esempio sugli effetti collaterali della terapia) che sono indispensabili al medico per svolgere bene il suo lavoro.

È il caso per esempio della disfunzione erettile che può colpire le persone con diabete: i pazienti non ne parlano con il medico per imbarazzo, ma visto che durante l’educazione terapeutica affronto questo argomento, e lo faccio con un linguaggio più colloquiale, è facile che colgano l’occasione per dirlo a me. In questo modo, più volte ho potuto agire da mediatore, intercettando il bisogno e favorendo la relazione con il medico, che può così occuparsi di trattare e risolvere questo disturbo con la terapia adeguata.

E poi c’è l’educazione terapeutica, così fondamentale in diabetologia

L’educazione che viene fornita al momento della diagnosi non è sufficiente. Il paziente non acquisisce le informazioni che gli vengono fornite, è ancora troppo impegnato ad accusare il colpo, a capire che cosa è successo.

Per garantire un’educazione terapeutica efficace, bisogna capire quanta conoscenza ha il paziente della malattia e bisogna stimolare l’interesse e il desiderio di saperne di più. Per esempio per i Braccialetti Blu ho organizzato incontri con diversi specialisti (oculisti, nefrologi) per promuovere una conoscenza migliore della malattia, per responsabilizzarli e renderli attivi rispetto al processo di cura

Ma soprattutto bisogna capire che rapporto ha il paziente con la malattia. Un paziente che mi dice “non ho il diabete, ho la glicemia” è un paziente che forse non ha accettato la sua malattia, che si vergogna o che la rifiuta.

Come hai conosciuto la medicina narrativa?

Credo di aver sempre adottato questo tipo di approccio inconsapevolmente, in maniera un po’ naïf. Quello che da sempre cerco di fare nei colloqui con i pazienti è mettermi nei loro panni, ascoltando la loro storia personale. A volte in medicina manca proprio questo aspetto umano, sapermi mettere nei panni dell’altro fa parte della mia professionalità.

Poi ho scoperto Rita Charon, che alla Columbia University insegna ai medici ad applicare le competenze narrative, prima attraverso alcuni video disponibili online, poi documentandomi leggendo articoli e libri.

Con i braccialetti Blu ho voluto approfondire questo tema e grazie alla collaborazione con una psicoterapeuta, la dottoressa Antonella Lo Conte, abbiamo organizzato 5 incontri serali per parlare dell’esperienza di malattia, dei vissuti, delle emozioni e del significato che ciascuno attribuisce alla malattia.

È stata anche l’occasione per testare una cartella parallela. La cartella parallela a differenza della cartella clinica, che raccoglie le indagini diagnostiche e il percorso di cura, si concentra sul ruolo relazionale e terapeutico del racconto della malattia da parte del paziente, condiviso con il clinico che lo cura. Paure, ansie, idee, punti di vista, aspettative e desideri sulla cura, connessioni tra la malattia e il contesto familiare, sociale, lavorativo. L’obiettivo è avere a disposizione strumenti innovativi per valutare l’impatto del diabete sulla qualità della vita delle persone. È così più naturale aiutarli a capire, sviluppare strategie educative, analizzare la direzione che sta prendendo la storia della malattia.

A cura di Francesca Memini