La prima volta che l’ho visto, era una afosissima sera di gennaio.
Nelle strade di Buenos Aires si moriva di caldo; nell’ostello, invece, l’aria condizionata garantiva un minimo di sollievo ai numerosi viaggiatori stanchi che si apprestavano a cucinare la cena.
È entrato col cappello in testa, il volto rosso, in leggero affanno. Aveva camminato dal Retiro, la stazione degli autobus di Buenos Aires, fino al micro centro. Un pezzo di strada da considerare lungo anche se affrontato con la metropolitana. A piedi, neanche da dire.
Ha chiesto qualcosa in spagnolo, ma le parole traballavano, a tratti, verso un italiano che sembrava voler venire fuori a tutti i costi, e che, in breve, ne ha svelato la nazionalità.
Ci siamo presentati – lui della parte Romagnola, io di quella Emiliana della stessa regione – e abbiamo iniziato a parlare, con la solita fluida spontaneità di chi è in viaggio. Claudio è una di quelle persone che potresti stare ad ascoltare per ore, perché quello che ha da dire è carico di vissuto, carico di spessore, carico di avventure e disavventure, descritto ad arte, con cognizione di causa, contestualizzato con precisione nella storia e nella geografia dei luoghi.
“Ecco, vedi”, mi dice, “è per questo che non rinuncerò mai agli ostelli… per la magia dell’incontro”.
“È vero”, gli rispondo. “E da quanto li frequenti?”, gli chiedo.
“Ormai, direi 50 anni”.
Un viaggiatore seriale, quasi rigoroso nella ricerca del vero, nel desiderio di immergersi nel posto e nell’appassionarsi a una cultura.
E mi racconta dell’Africa e dell’associazione di cui fa parte, Smile Mission, una Onlus nata nel 2005 per la promozione della salute orale in comunità svantaggiate e in paesi in via di sviluppo.
Mi piace, soprattutto, perché mentre parlo con lui, mi accorgo che mi mostra sempre l’altro lato della medaglia. Mai tutto bianco o tutto nero: si trattiene, in prevalenza, sui grigi.
Glielo faccio notare e mi risponde sorridendo: “Alla mia età, sai, mi posso concedere la varietà di tutti i colori”.
Del diabete parliamo per caso, la mattina che io sto per lasciare l’ostello di Buenos Aires. Entrambi siamo diretti in Patagonia, ma con tempi e modi diversi: in questo viaggio, è certo, non ci rivedremo più. Sarà più probabile, forse, in quella stessa regione che qui in Italia condividiamo.
È un diabete, il suo, arrivato circa 10 anni fa, con le solite, note, premesse. Sete spropositata, implacabile. Continuo desiderio di urinare. E poi la conferma medica.
Mi racconta della prima reazione di stupore, perché al tempo credeva che il diabete avesse a che fare con l’ereditarietà e non c’erano casi nella sua famiglia.
Poi la fase del rifiuto. “Fingevo non fosse vero. Ricordo che un’estate ho continuato a bere i succhi di frutta, con un conseguente apporto di zuccheri pericoloso per me. Purtroppo questa è una patologia silente e, proprio per questo, spesso l’ho sottovalutata”.
“Hai mai rinunciato ai viaggi?”, gli chiedo. “No, assolutamente mai. Anzi, ogni volta che torno sto meglio, perché mentre viaggio faccio moltissima attività fisica”.
Parliamo dei luoghi visitati in Patagonia. Come me si è fermato a El Chalten e ha affrontato tutti i trekking, compreso quello stupendo per arrivare alla Laguna Los Tres, alle appendici del Fitz Roy. Poi si è spinto a sud, fino a Ushuaia, e ancora di più nell’isola di Navarino, una delle isole più australi del Cile, dove – insieme a un amico che l’ha raggiunto – è riuscito a finire in due giorni un trekking che normalmente ne richiede quattro.
“Non volevamo cimentarci in chissà quali prodezze, la questione è molto più semplice: le condizioni atmosferiche erano disastrose, abbiamo voluto concludere in fretta. È così, no? Questo è il viaggio… avventure e disavventure”.
Certo, sacrosanto. Avventure e disavventure. Bianco e nero… e grigio.
Ogni volta che Claudio mi descrive un posto, mi sembra di essere lì. Vedo i colori, annuso gli odori, immagino i tratti dei volti delle persone, sento la morbidezza dei tessuti di cui sono vestite.
È un uomo che molto ha viaggiato e come molti viaggiatori riconosce il racconto come momento necessario, fondamentale.
Per questo odia i cellulari, per questo si arrabbia se le persone non si guardano negli occhi, se non hanno desiderio dell’altro, della natura, delle cose tutte. Di raccontare, semplicemente raccontare, quello di cui si sono stati testimoni, quello che capita nella vita, che ci coglie impreparati, che ci lascia di sasso, ma che col tempo impariamo a conoscere e a portare con noi, nel nostro personalissimo, lungo, viaggio.
A cura di Patrizia Dall’Argine