L’altra mattina ho ricevuto una chiamata. Ho pensato all’ennesima promozione telefonica e già preparandomi mentalmente al consueto «No, grazie», ho risposto con voce monotona.
Invece, dall’altra parte c’era il Dottor Salvatore Oleandri, Direttore del S.C. di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso Asl Città di Torino.
La redazione di Diabete.net aveva contattato l’Asl di Torino per parlare del progetto di cucina didattica di cui eravamo venuti a conoscenza. Non avevo ancora avuto modo di mettermi d’accordo sulle modalità e sui tempi dell’intervista. E il Dottor Oleandri mi ha anticipata, spiazzandomi (spiazzare è un verbo che ricorrerà spesso in questo articolo).
«Ho un buco di un’ora e ho pensato di chiamarla. Per caso è libera in questo momento?».
Ho preso il mio blocco, la penna, sistemato il telefono. Ho abbandonato immediatamente ciò che stavo facendo, perché so quanto il tempo della persona dall’altra parte sia prezioso e risicato e sono stupita dal fatto che non abbia delegato questa intervista a qualcuno del suo team Diabetologico.
Ma lo stupore dura poco. Il racconto del progetto è appena iniziato, e, in una manciata di secondi, mi appare chiarissimo, folgorante, quanto il Dottor Oleandri a questo progetto creda profondamente e quanta ricerca, dedizione e cura, sottendano le fasi pensate e le figure professionali coinvolte, affinché il beneficio per i pazienti sia concreto, immediato e duraturo.
«Questo progetto nasce in prima istanza con lo scopo di apportare un’educazione strutturata per un corretto stile di vita, che insieme alla terapia farmacologica, rappresentano la base per la cura del diabete.
Si articola in quattro incontri.
Nel primo, il paziente racconta le sue criticità, le difficoltà che ha incontrato nella gestione del diabete, alla presenza di un sanitario. Utilizziamo una Conversation map, che facilita il racconto e che ricorda il Gioco dell’Oca. Viene descritta dal paziente la sua giornata tipo, dal mattino alla sera, e come viene comunicata o non comunicata tutta la dimensione legata al diabete.
Nel secondo incontro, oltre al sanitario è presente un operatore di feet walking, che spiega la teoria della camminata veloce, indicando i luoghi nei quali è possibile praticarla.
Il terzo incontro si avvale della collaborazione della scuola alberghiera di Torino. Gli studenti dell’ultimo anno, utilizzando materie prime certificate, dimostrano come creare piatti buoni, sani e belli. I pazienti possono imparare dai giovani cuochi come limitare i grassi, attraverso l’utilizzo di spezie e aromi.
Nel quarto e ultimo incontro i pazienti arrivano con le etichette dei cibi che acquistano normalmente. Rispondiamo così alle seguenti domande: cosa c’è scritto e cosa significa. Soprattutto cosa contengono realmente i prodotti che fanno parte della nostra dieta. Questo percorso viene realizzato con gruppi di 8/10 persone».
«E a quanti pazienti, a Torino, sarà riservato questo percorso?», chiedo.
«A tutti», mi risponde.
E tutti, sono settantamila. E questa è la seconda volta che il verbo spiazzare si fa avanti.
Il Dottor Oleandri continua: «La terapia, insieme a un corretto stile di vita – che include sport e alimentazione sana – rappresentano il primo presidio terapeutico. Dobbiamo pensare all’insorgere del diabete per una persona come un enorme macigno. Non c’è solo il discorso della cronicità e della possibile insorgenza di complicanze. Si deve considerare che siamo esseri viventi che finalizziamo quasi sempre le nostre emozioni attraverso il cibo. Festeggiamo col cibo, oppure ci consoliamo col cibo. Non c’è nessuna persona che non dia significato al cibo, anche coloro che lo rifiutano, o che ne abusano. Il cibo è fondamentale per il nostro equilibrio sociale.
Il corretto approccio fa sì che i pazienti non si sentano messi da parte nella vita. Il diabete è gestibile. Sono stati fatti passi da giganti negli ultimi quindici anni. Fino a vent’anni fa avevamo pochissime frecce nella nostra faretra, ora ne abbiamo tante. Per questo il paziente va rassicurato. L’aspettativa di vita di pazienti diabetici è di poco inferiore di quella di pazienti non diabetici e dobbiamo liberarci dagli antichi retaggi culturali. Un paziente diabetico può fare tutto. Va semplicemente gestito».
«E come ci si comporta di fronte alla negazione della malattia?», chiedo.
«La negazione è una fase che il paziente attraversa. Noi dobbiamo ricordarci che Il paziente deve essere al centro. Deve essere ascoltato. Gestisco un team diabetologico di cento persone, tra medici, infermieri, dietisti, ecc. Il team diabetologico è a servizio del paziente e non a giudizio.
E dobbiamo pensare che se il paziente non riesce a fare ciò che è giusto fare, significa che non è passato il messaggio corretto. Perché quello che conta non è quello che diciamo noi, ma quello che il paziente ha capito. Spesso i pazienti vengono inondati di informazioni e non sanno cosa realmente stanno portando a casa. Un paziente privo di informazioni è come una persona che ha sete, ma per dissetarla non l’attacchiamo all’idrante dei pompieri. Dobbiamo essere perseveranti, consapevoli del nostro mandato, allineati alle linee guida, perché la formazione è fondamentale».
“Dobbiamo essere perseveranti, consapevoli del nostro mandato”.
A queste parole comincio a vacillare. Vacillare, perché, a questo punto il verbo spiazzare è stato ampiamente superato. Ed è bello sentirsi così. È bello che l’idea del paziente al centro mi commuova. Perché come tutti sono stata paziente e come tutti, in quei panni, morivo di paura. E la paura era dettata soprattutto dal fatto di non sapere quello che mi stava succedendo dentro e forse nemmeno di saperlo comunicare. Quel senso di solitudine e impotenza che riguarda la specifica sfera della salute, quando in un modo o nell’altro, viene a mancare.
E voglio chiedere, anzi devo, dall’altra parte della barricata com’è. Come si fa a venire a patti col dolore degli altri. Come si fa a non venire schiacciati da quel peso, da quella responsabilità.
Dall’altra parte del telefono il Dottor Oleandri si prende un attimo.
«La mia», mi dice, «è la professione più bella del mondo. Hai la possibilità di aiutare qualcuno e sei in una posizione di privilegio, perché una persona, per la quale sei uno sconosciuto, si affida e ti affida ciò che gli è più caro: la salute. Non vieni schiacciato, perché non puoi permetterti il lusso di fermarti a quella persona lì. Ce ne sono altre. E devi esserci per tutte. E quando un paziente ha paura lo devi prendere in braccio. E lo devi portare dall’altra parte».
In quest’intervista dovevo parlare della Cucina Didattica, un progetto promosso dal Team Diabetologico della Asl Città di Torino, che coinvolge diversi attori, e non posso fare a meno di soffermarmi su quei giovani cuochi di diciotto anni che apprendono, attraverso esso, quanto sia importante la salute pubblica e quale possa essere il loro fondamentale contributo nel mondo, investendoli di un senso che difficilmente potranno respirare in altri contesti.
Ma quest’intervista è diventato altro. Grazie a quel buco di un’ora, una cosa che sono certa capiti raramente nella vita del Dottor Oleandri, ho avuto modo di andare un po’ più a fondo, perché lui, molto generosamente, me l’ha concesso.
E ora penso alla sua posizione, che lui, da medico, definisce di privilegio. E penso agli ultimi due anni. A come usciamo stravolti, tutti, da quell’inferno pandemico che ci ha catapultati dentro gironi danteschi che mai avremmo voluto vedere e che mai avremmo creduto possibile incarnare.
Il Dottor Salvatore Oleandri ha aperto un vecchio ospedale durante la prima ondata di Covid e il suo Team l’ha seguito. Sono stati attivi 24 ore su 24, lontano da casa, da figli e affetti più cari, rischiando di ammalarsi o ammalandosi. In seguito, durante la seconda ondata, hanno aperto un centro vaccinazione per pazienti diabetici più fragili, perché ogni giorno contava e perché la rapidità giocava un ruolo fondamentale.
I problemi ci sono. Li conosciamo tutti – e lui per primo non li nasconde: intasamento, logistica, spazi insufficienti, tempi di attesa.
Ma quanto è importante, io penso, non dimenticare quello che è accaduto. Com’è importante non dimenticare quello che accade ogni giorno, in ogni corsia.
Com’è importante di fronte all’esordio del diabete, pensare che ci sarà qualcuno che se ne prenderà carico, che accompagnerà il paziente passo dopo passo.
Quanto è importante quell’umanità che, a dispetto del ruolo che occupiamo, ci lega tutti. E all’interno della quale a volte diamo e a volte riceviamo.
E com’è importante ricordarle bene tutte le volte in cui abbiamo ricevuto. Le volte in cui, inaspettatamente, una telefonata, nel bel mezzo di un martedì qualunque, ha il potere di illuminare ogni cosa.
A cura di Patrizia Dall’Argine