La pandemia un anno dopo. Cosa ho imparato dalle storie di persone con diabete

A volte mi capita di sognarmi in mezzo alla gente. A volte è un concerto; altre, una via particolarmente trafficata. C’è un via vai frenetico; sono dentro a un flusso di persone, ne avverto i corpi che sfiorano il mio. Bevo insieme ad amici. Ci scambiamo il cocktail. Me lo fai provare? Certo!

Ma, mentre il mio incosciente dà forma a queste immagini, il mio cosciente inizia a farsi sentire. Avverto un senso di profondo turbamento. Cosa fai lì? Perché sei lì? Perché non hai la mascherina? Perché non mantieni le distanze? Perché bevi dal bicchiere del tuo amico?
Il turbamento si fa angoscia. E l’angoscia si fa tachicardia e mi sveglio col cuore in gola.
So di non essere l’unica a fare questi sogni. Mi sono confrontata con i miei amici e mi hanno confermati che succede, spesso, anche a loro. Si sognano al cinema o a teatro. Si sognano a una cena. C’è sempre tanta gente. Ci si abbraccia. E poi si ricordano di non potere e si spaventano.
L’idea di un abbraccio ci spaventa. Ma allo stesso tempo lo sogniamo, perché mai come ora lo abbiamo desiderato. Mai con questa urgenza, con questo ardore.

È passato un anno da quando questa pandemia è entrata nelle nostre vite, creando un prima e un dopo. Una soglia molto netta, una lacerazione, nuove regole, nuove abitudini, nuovi limiti.
Abbiamo vissuto fasi alterne: dall’incredulità al terrore, dalla frustrazione all’illusione che fosse finita. E non lo era e non lo è.
Ci sono volte che l’idea di abbracciare un altro corpo mi sembra addirittura inconcepibile, come se stessi chiedendo troppo. Come se in realtà dovessi farmi bastare un braccio, una mano, un collo. Un pezzo, non l’intero. E in effetti, quello che mi sembra, più di tutto, ci abbia tolto questa pandemia è il senso di interezza, nostro e degli altri. E delle cose tutte. Delle azioni, del quotidiano.


Eppure, e questo è ciò che sappiamo dai libri di storia, dalla letteratura e anche dalla personale osservazione di ogni singolo giorno, l’essere umano si ostina a rinascere.
Come rinasceremo questa volta?
Avremo compreso finalmente che il nostro legame con la terra che ci ospita è inscindibile e ogni volta che lo recidiamo, il taglio lo facciamo a noi stessi?
La natura sopravviverà a noi. Possiamo dire lo stesso? Sopravviveremo al veleno a cui ci sottoponiamo, ogni giorno, con folle perseveranza?
Come rinasceremo questa volta? Dopo questa distacco forzato con l’altro, avremo ancora voglia di parlare di distanze culturali, di impossibilità di scambio e relazione con chi è diverso da noi?
Avremo compreso finalmente che nessuno di noi è un’isola e che nessuno si salva da solo?
Come rinasceremo questa volta? Quale sguardo saremo stati in grado di offrire alle fasce più deboli? Riusciremo ad abbandonare il “vengo prima io”, in favore di chi, per diritto, quanto meno etico, deve necessariamente venire prima?

In quest’anno ho continuato a intervistare persone con diabete. Ho intervistato mamme che mi parlavano degli esordi dei propri figli. Donne, uomini, ragazze, ragazzi, sportivi, creativi, liberi professionisti…
Se c’è una cosa che mi ha stupito più di tutte è stata la comune mancanza di lamentele.
Il fatto di non poter fare sport nei modi desiderati non era, ovviamente, in questo caso, un vezzo, ma una questione di importanza vitale, poiché correlata alla propria salute. Il fatto di non poter accedere agilmente alle mascherine, quando ancora era difficile recuperarle, pesava molto di più. Più degli altri avevano bisogno di proteggersi, meno di tanti altri l’hanno fatto pesare.
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, – ognuno di noi ha fatto ciò che poteva con quello che aveva – e questo non vuole essere giudizio, ma una constatazione in relazione a una esperienza diretta di cui posso parlare. L’ho constatato con più forza, perché per prima ho fatto parte di coloro che si lamentavano. Mi svegliavo con un profondo senso di scoramento, una cappa opprimente capace di offuscare ogni cosa.
Poi, avevo l’intervista. Fissata magari per il pomeriggio. La persona dall’altra parte mi raccontava la sua storia. Era in casa come me, impaurita come me, ma il diabete, diversamente da me, l’aveva già costretta a un cambio di vita radicale. Aveva già fatto i conti con l’inaspettato, nella sua forma più estrema.


A distanza di un anno, da quando questa pandemia è iniziata, voglio ringraziare tutte le persone che ho intervistato. Per quei pomeriggi di cappa e scoramento illuminati dalle loro storie, da quell’ostinarsi a rinascere ancora e ancora.

A cura di Patrizia Dall’Argine