Quello che il diabete mi ha tolto e quello che mi ha dato. La storia di Alessandra Corona

Immaginate il vostro corpo come un’aula. Gli organi sono gli alunni. Diciamo che il cuore è l’insegnante. Tra i vostri organi-alunni ce n’è uno in difficoltà. Uno che resta indietro, che fa fatica a integrarsi, che ha bisogno di un aiuto, un aiuto grande, perché da solo non ce la fa.
È il pancreas.

Questa immagine non è mia. Me l’ha descritta così, come ora la riporto a voi, Alessandra Corona, ventinovenne sarda.
Mi ha colpito e mi ha fatto riflettere, perché molte volte quando il pancreas smette di funzionare, i sentimenti che si provano verso quell’organo sono rabbia, frustrazione e rifiuto.
Perché non funzioni più? Perché prima sì e ora no?
Alessandra questa domanda non se l’è fatta.
Si è rimboccata le maniche e ha detto: “Adesso ti aiuto io. Adesso ci penso io a te”.
In nomen omen, si dice. E il suo nome, in greco, significa “protettrice di uomini”…e di organi, aggiungo io.
E in effetti aiutare gli altri è sempre stata una sua vocazioni, mi racconta. “Quando aiutiamo gli altri, aiutiamo anche noi stessi”. Quindi ora ha deciso di mettersi a disposizione. Ha contattato Riccardo Trentin, presidente di Rete Sarda Diabete e ha detto: “Eccomi! Ditemi cosa posso fare per voi e io lo farò”.

Il diabete è arrivato a 18 anni. “Io lo definisco, scherzando, il regalo della maggiore età. È stata mia madre ad accorgersi che qualcosa non andava. Bevevo molto, mi addormentavo ovunque. Una domenica mi ha svegliato. Mi ha portato un caco, di cui sono golosa, e mi ha detto: ‘prima proviamo la glicemia’. Era a 420. Abbiamo pianto tutte e due e da lì tutto è iniziato. Ma io l’ho accettato da subito, la mia famiglia ancora no”.
L’accettazione passa anche attraverso la conoscenza. La sua indole l’ha avvantaggiata.
“Sono sempre stata interessata ad apprendere. Ho sempre fatto mille domande su ogni cosa. Sono nata sotto il segno dei pesci, sono una persona curiosa”.
L’apprendimento quando non è fine a sé stesso diventa un mezzo. Un mezzo per studiare le cose e poi cambiarle. Un esempio? È appassionata di crossfit, solo che non è uno degli sport più indicati per diabetici.
Ma lei non si è fatta abbattere. Ha risposto studiando, cercando un modo per sostenere l’impegno fisico richiesto:
“Se mangi 3 ore prima, fai una giusta conta dei carboidrati, comprendi come regolarti a livello di insulina, si può fare. Una vita sola ci è data e io voglio viverla pienamente”.

Ecco, il succo della nostra intervista è racchiuso in questa frase.
Se anche non me l’avesse esplicitata con le sue parole, questo suo sentire è evidente nel modo in cui racconta la sua storia; nella passione e nell’entusiasmo con i quali tesse la tela della sua vita, non priva di momenti estremamente dolorosi, come la perdita del padre. Eppure dalle sue parole risulta evidente che questo nostro esistere sia una necessaria continua tensione tra luce e ombra, e che uno non possa esistere senza l’altro.

E quindi: “Il diabete mi ha tolto tanto, è indubbio. Ma mi ha anche dato.
Non posso dire di avere una vita come gli altri, perché ho dei limiti evidenti, precisi e non li voglio negare – padroneggiare, piuttosto – altrimenti rischio di non sapere più chi sono, di perdermi di vista.
Un’ipoglicemia mi ferma, anche quando non vorrei. Mi piacerebbe poter avere una pausa, poterci non pensare, per una volta.
Però, allo stesso tempo il diabete ha attivato un istinto di sopravvivenza antico e una consapevolezza fisica che non avevo prima. Se, ad esempio, i miei battiti accelerano e ho un sapore di ferro in bocca, so che sono in iperglicemia. Se, invece, vedo i colori accesi, vividi allora sono in ipoglicemia. È una malattia che porta a raggiungere un grado di introspezione altissimo.”

E poi c’è il tema del coraggio. “Che tipo di coraggio richiede il diabete?”, le chiedo.
“Il coraggio dell’ignoto”, mi risponde. “Il coraggio del punto di domanda costante. Del quarto d’ora dopo; il coraggio di amministrare al meglio il tempo che ci è concesso.
Vedo persone che si lamentano del lunedì, che lo detestano. Io mi alzo e dico ‘Meno male che abbiamo un altro lunedì da vivere”.
Hai ragione, Alessandra, meno male.
E meno male che a volte c’è qualcuno a ricordarcelo.

A cura di Patrizia Dall’Argine