Parlare di cose difficili ai bambini, si deve fare?
Sì, si deve.
Parlare di diabete ai bambini, si deve fare?
Sì, si deve. Bisogna. È necessario. È doveroso. È giusto.
E il perché sia giusto, me lo spiega Morris attraverso la storia di sua figlia Mia. Con una voce brillante, piena di energia e speranza, anche quando si rompe, ogni tanto, per la commozione.
Perché i sentimenti sovrastano soprattutto quando la storia che stai raccontando non è la tua, ma quella di tua figlia.
Anzi, no. Non è del tutto vero.
È la storia di tua figlia e la tua insieme. Che vanno di pari passo. Legate in maniera indissolubile.
Perché l’esordio di Mia a meno di tre anni è inevitabilmente anche un esordio per i genitori, e per Tabata, la sorella.
La vita cambia per tutti, mai per uno solo.
Quindi Morris si è dedicato anima e corpo per di far sì che questo cambiamento, così difficile, così estremo, portasse anche cose buone.
E c’è riuscito. Anzi, no. Non è del tutto vero.
Ci sono riusciti, tutti insieme, soprattutto grazie a Mia, che con la forza straordinaria e inarrivabile dei bambini, ha affrontato di petto quello che le stava capitando e ti dice, se glielo chiedi, che lei arriva dove arrivano gli altri, ma facendo un’altra strada. E che questo diabete, in fondo, è come affrontare un’avventura. E il suo sorriso – come ogni sorriso di figlio – è stato capace di infondere nel suo papà tutto il coraggio di cui aveva bisogno. E il coraggio, si sa, chiama all’azione. Il coraggio si fa.
Ma come?
Prima di tutto rendendo il diabete un argomento accessibile a tutti e, nel caso di Mia, “tutti” sono i bambini della sua età.
Ed ecco l’idea, supportata da due figure chiave nella vita di Mia, la maestra Jessica Fantini e la diabetologa Tosca Suprani: scrivere un libro.
Raccontarlo a misura di bambino, con folletti carboidrati, folletti glucosio, maghetta insulina.
E coinvolgere tutta la classe. E così è stato fatto. Ogni bambino ha scritto una lettera a Mia e la lettera è stata inserita nel libro, che si intitola “Mia, una piccola dottoressa”.
E piccoli dottori sono stati e sono anche i compagni di classe, che fin da subito hanno visto Mia provarsi la glicemia, bucandosi il dito e che a loro volta hanno voluto provare sulla loro pelle cosa significasse. E se avvertono un qualche cambiamento in Mia, avvisano la maestra e riconoscono il suono del micro che segnala l’ipoglicemia.
Ai bambini non è stato nascosto niente, e questo li ha resi coscienti e responsabili. Capaci con naturalezza di affrontare una realtà che non è la loro, ma di cui indirettamente fanno parte.
E queste sono le basi dell’empatia e anche la risposta alla domanda con cui questo articolo è iniziato: è giusto farlo?
“Quello che ho potuto notare da genitore, è che i bambini nella classe di Mia sono portati ad aiutare le persone più fragili, più deboli. Ma i bambini di oggi, sono gli adulti di domani. E io credo fortemente che questi futuri adulti faranno lo stesso. In caso di bisogno saranno presenti, si schiereranno ancora e di nuovo dalla parte dei più deboli e dei più fragili. Perché? Perché ne hanno avuto diretta esperienza. I bambini sono pagine bianche e siamo noi responsabili di quello che viene scritto su quelle pagine nella loro infanzia“.
Morris, d’altra parte, ha scritto a sua volta un nuovo capitolo nella sua vita. Dedica il suo tempo come volontario all’Associazione Diabete Romagna, che ha seguito tutta la parte organizzativa, la ricerca della casa editrice e la raccolta fondi per la realizzazione del libro di Mia e del gioco in scatola che ne è seguito. Entrambi sono disponibili presso l’Associazione e il ricavato servirà a finanziare nuovi progetti e a puntare verso nuovi obiettivi.
Mi racconta, ad esempio, che durante il lockdown ha telefonato alle persone più anziane, che erano sole. E che quelle telefonate hanno aggiunto significato al suo tempo.
Navighiamo a vista in un mare di incertezza, e parole come queste devono necessariamente farci riflettere.
Il fatto è che ci dimentichiamo, a volte, che riempire di significato e valore il nostro tempo dovrebbe essere prioritario e non occasionale.
E forse, dentro questo mare di incertezze, aiuterebbe ogni persona a non affondare.
Anzi, no. Non ogni persona. Tutti noi, insieme.
A cura di Patrizia Dall’Argine