Cosa direi alla me bambina se potessi parlarle ora?
Mi capita spesso di chiedermelo. Suppongo capiti a tutti. La prima sensazione che mi dà questo pensiero è un senso di tenerezza infinito per la fantasia che non potevo avere.
La vita è stata più creativa di me. Ho fatto la mia parte, certo. Ma la mia parte, per l’appunto, è solo una parte della storia.
Dice un detto indiano: “Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi piani”.
È giusto ricordarsi che su molte faccende il nostro potere decisionale è nullo. Alcune cose accadono. Accadono e basta.
Un esordio di diabete a 8 anni accade. Tre settimane in ospedale accadano. Una malattia cronica accade.
“Allora la differenza come la facciamo?”, verrebbe da chiedersi.
Forse per come reagiamo verso quello che accade, provo a rispondermi.
La reazione è una direzione. La reazione crea una strada rispetto a un’altra.
Io e Giulia parliamo mentre si trova su un autobus che la sta portando a casa, dopo una giornata trascorsa all’università.
È una studentessa fuori sede e studia a L’Aquila. Il segnale va e viene e temo di perdere passaggi importanti del suo racconto.
“Ci sentiamo più tardi, cosa ne pensi?”
“Certo, ti chiamo appena arrivo a casa”
E da casa si svela una vita, che include il diabete, e quindi, inevitabilmente, è tortuosa.
Il momento più complesso non è l’esordio, ma un rifiuto totale della cura a 13 anni.
“I miei si stavano separando. Sentirmi malata mi faceva sentire in difetto. Non volevo essere etichettata. Non volevo essere ‘quella col diabete’. Avevo un rifiuto categorico e totale… Sono arrivata ad avere l’emoglobina a 13. Il mio medico curante non è stato di nessun aiuto. Da lui mi sono sempre sentita giudicata. Diceva sempre che non facevo bene le cose.
E invece è stato fondamentale, in quell’occasione, un gesto molto forte di mia madre. Ha nascosto tutto quello che mi serviva per farmi l’insulina e mi ha detto: ‘visto che non lo usi, non ti serve’. Quel gesto mi ha risvegliato. Lei era spaventatissima e ha tentato il tutto per tutto: ha fatto bene. È stato un momento fondamentale della mia vita. Perché da allora ho ripreso a curarmi.”
Poi a 16 anni Giulia va a trovare in Germania sua cugina, diabetica dall’età di due anni, e vede che con il microinfusore quest’ultima può fare molte più cose rispetto a lei, che, invece, è costretta a controllarsi costantemente. Si decide, quindi, per questo cambio.
“Questo mi ha portato molta più serenità. I valori vanno bene. Ma la tranquillità profonda che sento dipende anche dalle persone che ho intorno. È cruciale per l’accettazione non sentirsi diversi. Essere forti ed essere circondati da persone forti.
Il fatto è che tutto influisce. Le emozioni influiscono sulla glicemia e viceversa: alcuni stati di glicemia influiscono sulle emozioni. Ad esempio, quando sono in ipoglicemia mi viene da piangere. È importante parlarne perché c’è tantissima ignoranza.”
Giulia studia Mediazione Linguistica. Probabilmente farà l’interprete.
E penso che la prima mediazione linguistica della nostra vita la facciamo con noi stessi. Che la prima interpretazione è dedicata al nostro stesso sentire, a cercare le parole giuste per definirci o per uscire da una definizione, per esempio.
“Se incontrassi la me bambina che non voleva fare l’insulina, le direi: È una cosa che ti apparterrà sempre, un impegno costante, ma non è così limitante come credi”.
“Ci pensi spesso a quel periodo? Al momento in cui avevi smesso di curarti?”, le chiedo.
“Sì, ci penso sempre. Sapevo di star male, ma non l’accettavo. Era come se volessi distruggermi per distruggere il diabete.
Il diabete, negli anni, mi ha insegnato ad avere pazienza. Si impara tutti i giorni. Mi ha responsabilizzato fin da bambina. Io mi sono sempre fatta le punture da sola. È come se ti dicesse che se non sei tu a prenderti cura di te stessa, nessuno lo farà al tuo posto.
Il ruolo del medico è essenziale, perché quando si parla di una malattia cronica la sua figura diventa famigliare e costante e se lui non si fida del paziente, se porta avanti un atteggiamento di condanna, non funzionerà mai”.
A cura di Patrizia Dall’Argine