“La vita di un’altra” o la mia? La storia di Jessica Zanardo

“Io sono Jack”
“Non voglio che tu esista”
“Ma esisto, quanto è vero che esisti tu”
“Non ti voglio con me”
“Non posso andare da nessun’altra parte”
“Non ti ho scelto”
“L’ho fatto io per te”


Ecco, io me lo immagino così l’inizio della relazione tra Jessica e Jack.
Univoca e dispotica.
Lei che sceglie di ignorare la sua esistenza e per 8 mesi non si fa l’insulina, fino ad arrivare a pesare 43 kg.
Se non ti voglio non ci sei. Se non ti voglio non esisti. Ma lui c’è, invece, e si chiama diabete di tipo 1, ed è arrivato senza preavviso da un giorno all’altro, mandando a gambe per aria la sua vita.


“La vita di un’altra” 
non è solo il titolo del libro pubblicato per Santelli Editore da Jessica Zanardo, è la sensazione di una espropriazione della propria esistenza di fronte a una malattia cronica.
Un inverno dei più glaciali, dei più gelidi, scarno, buio.
Eppure, quello che sappiamo dell’inverno è che, volenti o nolenti, seguirà la primavera. E se uno si ferma un attimo a pensarci, la ciclicità delle stagioni, con i suoi tempi assoluti di morte e di vita, è la cosa più saggia a cui abbiamo accesso da quando nasciamo.

È servito far diventare il diabete un’entità antropomorfa, con caratteristiche umane, con un nome – Jack – capace di occupare uno spazio non solo psicologico ma fisico.
“Me lo immaginavo in casa, avvertivo la sua presenza… e la verità è che più lo avvicinavo a me e più mi sentivo meglio”.
L’accettazione, la primavera di Jessica.
Allora eccomi, sono pronta, raccontami cosa sei, Jack.
La primavera di Jessica comincia con una dose di insulina e una notte travagliata, insonne. “Alle 4 mi sono alzata e ho aperto una pagina Facebook per cercare i miei simili”.
Questa è la mia storia, qual è la vostra?
E arrivano. Le storie di tante persone. Realtà sommerse, vite in sospeso:
“Anche a me è successo…”, “La mia famiglia non lo sa…”, “Non ho il coraggio di dirlo al lavoro…”, “Mi sento sola…”, “Mi sento spaventata…”


“Le persone si riconoscono nelle storie degli altri”, mi dice, “e scrivendo mi sono resa conto che in tantissimi avevano bisogno di parlarne
. La mia giornata inizia all’alba e finisce al tramonto. Sto nel qui e ora. Non importa quello che ho fatto ieri, oggi è un giorno nuovo e di nuovo devo confrontarmi col diabete. Gestirlo è un lavoro a tutti gli effetti”.
Ad esempio può saltare un’intervista. La nostra, definita via mail.
“Ti chiedo scusa, ma ieri ho avuto 4 ipoglicemie. Non ce la facevo. E non sono nemmeno riuscita ad avvisarti”.
Al telefono ha la voce di una che ha appena preso un pugno in faccia. Ma in realtà, mi accorgo dopo pochi minuti che non è così. È più complesso.
È, in effetti, la voce di una che ha preso un pugno in faccia – non giriamoci intorno – perché 4 ipoglicemie dovute al fatto che semplicemente hai cambiato fette biscottate, sbagliando così la conta dei carboidrati, e che per un errore così piccolo devi stare così male, lo è un pugno in piena faccia.
Eppure, io ci leggo la pazienza della guerriera. Di chi accetta una disfatta, perché conosce il suo nemico (che ormai ha anche smesso di chiamarsi nemico) e sa che a volte un vantaggio se lo prende, ma che lei le armi per combatterlo le possiede tutte e sa come usarle.

“Io sono il mio pancreas”, mi dice, “devo fare quello che lui non fa. La mia glicemia è in balia di moltissimi fattori, non ultimo le emozioni”.
L’innamoramento per Leonardo, per esempio, che “si è preso me e Jack”. Chissà cosa le ha combinato in quei giorni la glicemia. I giorni in cui due esseri umani si riconoscono e si vogliono e ognuno si prende il pacchetto completo di ciò che è l’altro senza nemmeno battere ciglio.
Perché il diabete c’è, occupa uno spazio, ma “bisogna considerare la vita un cerchio. Il diabete è un puntino su questo cerchio, non il cerchio stesso… Esiste, ma non gli permetto di essere al centro della mia vita”.

A cura di Patrizia Dall’Argine