14-15/7/04 Tempo d’attesa
“Le piogge torrenziali, i cieli apocalittici e improvvisamente luminosi, gli stretti innevati, le muraglie vertiginose, i ghiacciai fantasmagorici hanno sedotto tanti ansiosi di avventure, di gloria, o di imprese memorabili, per persone lanciate alla conquista di un sogno”.
Da Naufragi di Francisco Coloane
Sotto una cappa di nuvole bigie, di bassa pressione, la vita degli abitanti estemporanei del ghiacciaio Goldwin Austen, langue. Langue sulla esigua tendopoli rimasta alle pendici del Broad Peak così come la vita è sospesa in attesa di tempi migliori al campo base del K2, a poca distanza da noi. In questi ultimi giorni, in parecchi hanno abbandonato la sfida: tedeschi, austriaci, americani, iraniani e molti altri, stanchi di questa perenne altalena che non concede spiragli concreti per raggiungere le alte quote di questa scoscesa montagna. Il nostro gruppo è quasi tutto acclimatato: molti di noi hanno già trascorso almeno due o tre notti ai campi alti, anche se il campo tre, oltre i 6000 mt. non è ancora stato allestito. Senza questo punto di appoggio, risulterebbe un azzardo, pensare di poter raggiungere la vetta. Come si diceva, qui al campo base, siamo rimasti in pochi con la speranza di una tregua del maltempo. Due settimane ancora da investire possono sembrare molto o poco tempo a disposizione a seconda dei punti di vista. Poco è il tempo se si valutano obbiettivamente le attuali condizioni del Broad Peak: infatti c’è molta neve in quota, pesante ed instabile, dunque con accentuato pericolo di caduta di slavine e valanghe, senza considerare poi la mancanza di una traccia battuta. Ancora il tempo appare scarso, se è vero che, da quando siamo in Pakistan, su trenta giorni trascorsi, solo otto giorni sono stati di sole. C’è molto tempo ancora invece se avverrà l’atteso miglioramento. Una finestra di tre giorni consecutivi di condizioni meteoreologiche accettabili potrebbero sortire l’effetto voluto. Ci siamo già accordati con l’unica cospicua spedizione rimasta qui al campo base, una spedizione multinazionale e di tipo commerciale organizzata da una esperta guida alpina neozelandese. L’accordo prevede di salire insieme fino al campo due e poi tentare di aprirsi la strada verso l’alto per compiere un tentativo alla cima, unendo le forze e provando insieme a battere traccia nella neve fonda. La prospettiva è comunque di impervia attuazione, ma sembra l’unica chance con una minima percentuale di successo. Questi ultimi giorni al campo base sono trascorsi quieti, quasi in una monotona routine: lunghissime notti (anche dodici ore di sonno), colazioni, pranzi, cene inframmezzate da letture, da un po’ di musica e dagli agognati collegamenti internet e satellitari con l’altra nostra parte di mondo, gli affetti. Per fortuna non mancano accese discussioni che spaziano su molti argomenti diversi tra loro: dalla politica (immancabile se no non saremo italiani!), al terzo mondo ed ai suoi modelli di sviluppo, dalla professione di ciascuno di noi alla montagna, come spesso accade tra accaniti appassionati di alpinismo.
Qui con una spedizione nazionale italiana al K2, in diretta concorrenza con un’altra spedizione, quella degli Scoiattoli di Cortina d’Ampezzo, noto gruppo di guide alpine ne stiamo vedendo delle belle: un via vai di elicotteri, strutture piramidali faraoniche “eco-compatibili” (casa Italia), massicci dispiegamenti di mezzi, uomini e logistica, il tutto naturalmente a spese del contribuente. Ma già questi sono discorsi di altri sprechi, di enfasi e retorica veterocoloniale che getta parte del movimento alpinistico italiano indietro di giusti 50 anni, inquinando l’aria sottile delle alte quote. Due imponenti spedizioni che invece di celebrare il Golden Jubilee del K2, stanno piuttosto celebrando se stesse in pompa magna, per dire nulla di nuovo, per non scrivere una nuova pagina di alpinismo su di una montagna così difficile. Al campo base del K2 si respira un’aria greve, priva di quei legami tipici fatti di solidarietà ed ospitalità, valori che a noi domenicali della montagna, alpinisti di infima categoria, in ambienti così severi ed in situazioni così difficili sorgono spontanei: un pasto caldo, una chiacchiera cordiale, una pacca sulla spalla. Niente di tutto ciò in questa cinquantenaria commemorazione, provato sulla nostra pelle.
Inshallah
Dissertazione in ambito di diabete L ’impresa più ardua di questi giorni d’attesa è l’auto controllo e l’auto limitazione nel cibo. Già in momenti di assoluta inattività fisica e di permanenza in alta quota, mantenere in livelli accettabili la glicemia non è facile. Nikki, Daniele e Marco hanno aumentato di un 20% la dose giornaliera di insulina. La tensione nervosa, l’ansia per l’attesa di cambiamenti che non giungono, giocano a loro sfavore. Foglie di insalata sulle quali sfogarsi non ce ne sono, così pure le gomme da masticare stanno terminando e allora, come animali in gabbia, scappa più pasta, più purè di patate, più “yellow rice”, più dal (legumi). L’elenco sarebbe ancora molto lungo costituito da tanti, troppi carboidrati. Volenti o nolenti nel diabetico convivono due anime in contrapposizione: il paziente disciplinato, coscenzioso, consapevole, controllato ed “empowerizzato”. Poi c’è la persona, in quanto uomo o donna caratterizzata da sentimenti ed istinti irrazionali, indisciplinati, incoscienti, incosapevoli e non controllabili. Ahinoi, non c’è l’uno senza l’altro!