Campo Base Avanzato (Tibet, 5760m), 4 Ottobre 2002
Grossi corvi e cornacchie svolazzano in un campo base ormai in uno stato di semi abbandono. Un sole freddo alimentato da un vento da nord riscalda lievemente i nostri animi, felici e consumati da più di venti giorni di permanenza alle alte quote. Le bandierine di preghiera, pure esse, sbattacchiando qua e là senza i clamori degli alpinisti, o presunti tali, paiono non aver più la loro forza evocativa. Da come si erano messe le cose una settimana fa, il brutto tempo incessante, sembrava proprio che la parte alpinistica del nostro progetto rimanesse incompiuta. Poi una finestra di bel tempo, inaspettata mentre navigavamo nell’apatia e nel freddo fastidioso delle nostre tende, a mutare questi ultimi straordinari giorni.
Divisi in due gruppi da sei persone, subito ci siamo alzati verso i campi alti, dubbiosi sull’esito della salita, ma molto determinati. Già il portare il materiale oltre il previsto al Campo 1 e al Campo 2 (ricordate i furti dei sacchi a pelo), riparare e rinforzare le tende danneggiate, impiantare una tenda in più a causa del nostro muoversi in massa, non faceva presagire facili giornate. La notte del 1° ottobre, Stefano, gran lavoratore, e Vito, generoso ma esausto al Campo 2, non compaiono tra le pile frontali che adamantine fendono l’oscurità. La salita notturna al Campo 3 è qualcosa che oltrepassa la classica fatica da sforzo: il freddo intenso e la quota la fanno definire da Mauro “fatica di esistere”, il nostro Sormani già abituato all’himalayano “Muro di Sormano”, il terribile pendio che conduce al Campo 2 ribattezzato in suo onore a ricordo della mitica salita di casa sua. Sarà proprio Mauro, al Campo 3, la prima vittima del gelo. Più di un’ora, interminabile, aspetteremo prima di riuscire a “ricoverarlo” in una tenda lasciata libera da una spedizione giapponese. Il fremito da freddo è ormai il nostro comune denominatore. Assicurato Mauro al terapeutico tepore di un sacco a pelo, io, Pierino e Patrizia continuiamo verso la fascia rocciosa, quota 7600 metri. Qui il freddo falcidia la motivazione del grande Pierino, non più disposto a soffrire. Ma il dolore è soggettivo e io e Patrizia affrontiamo l’insidioso passaggio di misto senza esitazione. Arriviamo sul piano sommitale che albeggia. Uno sherpa, gentile e ammirato, ci indica che la cima vera e propria dista ancora un’ora e mezza. Un’enormità. Patrizia è in riserva, ma scavando nel profondo della sua enorme volontà, come un’ombra, mi segue fino al ripiano caratteristico della vetta. L’Himalaya, incredibilmente, è ai nostri piedi.
Scendendo, come in salita, quasi tutte le persone che incontriamo (non mi va di chiamarli alpinisti) hanno le bombole d’ossigeno, e sono accompagnati al guinzaglio dagli sherpa. E’ una vergogna, specie quando incappiamo in tre giovanotti americani, pericolosamente imbranati nelle manovre di discesa a corda doppia mentre boccheggiano goffamente nelle loro maschere esilaranti. Ma arriviamo al clou del progetto ADIQ.
L’indomani scendiamo dalla montagna e sotto l’ice cliff scorgiamo i nostri compagni del secondo gruppo. Comunichiamo a gesti il successo (della radio, anch’io imbranato, mi ero fagocitato le frequenze). Appena congiunti, GP, con un forte abbraccio, ci dimostra il suo affetto; e successivamente, con commozione reciproca, tutti gli altri. Raccontiamo alcuni dettagli della salita, raccomandando di coprirsi bene per il gran freddo, che sembra aver forte presa non solo tra i diabetici (pure Patrizia avrà delle conseguenze). Prendo la mano di Marco, la stringo forte, gli do due baci, uno per guancia, di buon auspicio, quasi fossero una staffetta, un modo per passare tutta la mia energia a lui. I suoi occhi sono determinati: s’intuisce una motivazione superiore. Il resto è storia di queste ore. Marco, primo diabetico italiano (e sui generis al mondo), è arrivato in cima a un ottomila insieme a GP, il nostro grande leader. Gli altri compagni del secondo gruppo, Sandro, Paolo Cerin, Beppe, Paolino, hanno dato il meglio di loro stessi e solo l’ambiente ostile degli 8000 metri, dove siamo passeggeri e ospiti senza possibilità di lunga sopravvivenza, li ha piano piano fermati.
In conclusione, ognuno ha dato il meglio di se stesso, sempre, e il gruppo ADIQ ha vinto sotto tutti gli aspetti. Scientifico, alpinistico, umano.
Alberto Peruffo