Mara Lastretti è psicologa, psicoterapeuta, PhD Neuroscienze e Psichiatria, professoressa a contratto presso la Sapienza Università di Roma, Direttrice Osservatorio di Psicologia in cronicità dell’Ordine Psicologi del Lazio. E se questo non dovesse bastare, è la mente dietro la rassegna dei “salotti di OPC”, un viaggio in sei puntate, incentrata sulle patologie croniche e sulla cronicità della malattia, attraverso la testimonianza e la partecipazione di personaggi pubblici. Insomma, quando intervisto Mara Lastretti so che ci sarà tanto da dire.
E proprio di cronicità vorrei parlare con lei, oggi. Dell’impatto emotivo di chi vive una patologia cronica.
«Si tratta di un nodo. Ti identifichi con la tua patologia, che è sempre con te, ma tu non sei la tua patologia. Non hai scelto questa convivenza forzata. A un certo punto, con i pazienti, arriviamo sempre a quello che definisco ‘un giro di boa’, che porta la seguente domanda: Dove stiamo andando? Da lì inizia un passaggio di consapevolezza importante, obbligatorio.
Io credo sia importante comprendere che non è normale non avere paura. Penso ai momenti in cui si è preda di ipoglicemie: è impossibile accettarlo. Come si fa ad accettare una cosa simile? Quello a cui si arriva è l’accettazione della condizione. Ed è un lavoro lungo. È un lavoro che ha a che fare col mondo che è dietro ogni persona e che include anche i famigliari. Èd è normale arrabbiarsi o non averne voglia».
Come dice la Dottoressa Mara Lastretti, ogni persona è un mondo, e non esiste un diabete uguale a un altro, ma le chiedo se si possono individuare delle fasi ricorrenti dopo l’esordio e fino a quella che lei chiama l’accettazione della condizione.
«Certamente c’è un momento di shock da microinfusore, da sensori. Il corpo rende visibile la malattia. Certamente si attraversa una rabbia potente. La domanda è: Perché a me? E mi meraviglierei se non si passasse attraverso questa rabbia. Segue una fase depressiva. E poi c’è una fase di adesione. Una fase di accettazione verso la condizione. Si tratta di modelli teorici, standard. Tutti arrivano all’ultima fase, ma i modi per arrivarci sono molto differenti. Dipendono da età, genere, da chi sono le persone con cui si condivide la patologia. A volte i famigliari, invece di essere alleati, apportano ulteriore fatica”.
“Il tema principale è sempre quello della vulnerabilità. Ho pazienti preoccupati di fronte a un primo appuntamento perché si vergognano di parlare del proprio diabete.
È questo, un tempo in cui siamo chiamati ad essere scattanti, performanti e veloci. Devi essere veloce anche a prenderti cura di te, a risolverti. Non puoi e non devi perdere tempo. Ci vuole tempo invece. Le cose cambiano, migliorano, e col tempo si comprende che si può fare tutto.
Una mia paziente mi raccontò della sua diagnosi. 300 di glicemia. Aveva guardato suo padre e gli aveva detto: Papà dammi mezz’ora. Si era comprata un occhio di bue, un biscotto con frolla e marmellata. Lo aveva mangiato piangendo e pensando che sarebbe stato l’ultimo. Dopo due anni e mezzo è venuta al colloquio con l’occhio di bue e l’abbiamo mangiato insieme. Ci sono limitazioni e convinzioni legate al diabete che vanno assolutamente scardinate.
La differenza la fa anche il luogo in cui ti ammali. Ci sono differenze importanti da regione a regione. Sia a livello di conoscenza, sia a livello di accesso ai dispositivi».
La Dottoressa Mara Lastretti è parte di Progetto Esordio, di cui abbiamo avuto modo di parlare qui.
La sua vita è dedicata in toto all’ascolto e alla trasformazione del dolore in altro, in qualcosa che possa addirittura dare invece di togliere. Le chiedo, infine, come ci si relaziona col dolore degli altri.
«Io guardo il mio paziente. Lo osservo attentamente. Sottolineo la sua unicità. Gli dico: non ti romperai. Sei frantumato ma ti riaggiusti. Datti tempo. Concediti tempo per questa tua nuova unicità».
A cura di Patrizia Dall’Argine