Curare anche la mente

PSICOLOGIA
A colloquio con il diabetologo Paolo di Berardino

Curare anchela mente

Il buon compenso glicemico è collegato anche alla serenità della psiche: superare lo shock e la depressione per una condizione cronica impegnativa come il diabete è essenziale per arrivare a una buona autogestione. Fondamentale l’alleanza tra medico e paziente

Ricordiamoci che non c’è solo il corpo, ma anche la mente. Dentro questa estrema sintesi c’è la chiave per affrontare efficacemente la scoperta di un diabete e iniziare positivamente quel percorso che porta a una buona gestione della patologia e a una vita serena: l’equilibrio psicologico è non meno importante di quello metabolico, al quale è strettamente legato.
Di questo abbiamo parlato con Paolo Di Berardino, responsabile del Servizio di diabetologia e malattie metaboliche dell’Ospedale di Atri (Teramo), da sempre impegnato nello studio degli aspetti psicologici della malattia diabetica. E’ noto che chi riceve una diagnosi di diabete deve attraversare un non facile processo, che passa per le fasi di shock, rifiuto, rabbia e depressione, negoziazione e infine accettazione, pur con sempre possibili regressioni. Il rispetto della terapia prescritta è la garanzia della possibilità di condurre un’esistenza normale, anche con il diabete, ma questo traguardo non si raggiunge senza intoppi e ostacoli.
“La letteratura scientifica e la stessa Organizzazione mondiale della sanità -esordisce Di Berardino- ci dicono che un paziente diabetico, soprattutto di tipo 2, può non riuscire a seguire la terapia correttamente in oltre il 50% dei casi. La scarsa adesione alla terapia è una difficoltà legata alle caratteristiche della malattia cronica, di cui il diabete, sia di tipo 1 sia di tipo 2, è esempio paradigmatico, una condizione dalla quale non si guarisce, che comporta un trattamento che dura tutta la vita e implica di solito una complessa politerapia (ipoglicemizzanti orali, farmaci contro l’ipertensione e il colesterolo, insulina). E’ una situazione che tocca profondamente la sfera personale e le relazioni familiari e sociali dell’individuo, che sente di perdere la sua integrità fisica e psichica, avverte una separazione dalla propria immagine corporea precedente e si deve dare un nuovo modello di sé, che però deve comprendere questa nuova dimensione cronica”.
In questo contesto l’aderenza alla terapia diventa fondamentale. E Di Berardino tiene a sottolineare che, nel caso del diabete, dobbiamo proprio parlare di adherence e non di compliance, “perché la seconda implica una posizione passiva del paziente, mentre l’aderenza richiede un comportamento attivo del soggetto, un coinvolgimento consapevole in prima persona”. Per ottenere questo risultato, è indispensabile stabilire tra medico e paziente un rapporto stretto e positivo, una vera e propria “alleanza terapeutica”, che deve cominciare subito, fin dalla prima visita.
“Già dall’esordio, come ci indicano gli standard di cura di Amd e Sid e dell’americana Ada -spiega il diabetologo- dobbiamo conoscere le caratteristiche della personalità del paziente, il suo profilo psicosociale, i suoi eventuali problemi psicologici preesistenti, per esempio tendenze all’ansia o alla depressione”. La depressione, in particolare, è un nemico assai insidioso, che può accompagnarsi al diabete e contribuire a peggiorare la situazione: “I pazienti diabetici -commenta Di Berardino- hanno possibilità doppia, rispetto ai non diabetici, di sviluppare una sindrome depressiva e questa rappresenta spesso una causa di insuccesso nella gestione della patologia: studi scientifici pubblicati su Diabetes care attestano una forte associazione tra depressione e non aderenza al trattamento”.
Essenziale, ancora una volta, è fare presto, individuare tempestivamente il disturbo depressivo, attraverso “un colloquio approfondito con il paziente, magari con l’aiuto del medico di medicina generale in contatto con il diabetologo”. Un problema può essere rappresentato dal poco tempo a disposizione per le visite. Di Berardino lo sa bene, ma sottolinea che “più della frequenza conta la qualità del rapporto, cioè la capacità di ascolto, l’empatia, il tipo di comunicazione, la costruzione, in quelle tre-quattro volte l’anno in cui vediamo la persona, di una relazione positiva, biunivoca, in cui il paziente non deve soltanto ascoltare passivamente, ma dialogare e partecipare”.
Per sostenere la persona il diabetologo deve poi individuare la sua condizione sociale e il suo livello culturale, avendo presente che, statisticamente, “più quest’ultimo è basso, più facilmente si sviluppano le complicanze”, utilizzare un linguaggio commisurato al grado di istruzione del paziente, demolirne le eventuali false credenze sulla patologia, verificare se e come accetta la sua condizione, se vive da solo oppure no, se può contare o no su un sostegno familiare. “Dobbiamo cioè comprendere il paziente nella sua globalità”, conclude Di Berardino.
Per tutto questo può bastare il diabetologo o è necessario l’intervento specialistico di uno psicologo? Dipende dai casi. Paolo Di Berardino delinea così il quadro della situazione italiana odierna: “In teoria lo psicologo dovrebbe essere presente nell’équipe diabetologica, così come il dietista, ma di fatto l’aspetto psicologico oggi è trattato prevalentemente dal diabetologo, perché, a parte cinque o sei realtà dove lo psicologo è strutturalmente integrato nel team, di solito questa figura è un consulente esterno. In certi casi il suo intervento è necessario, specie se vi è uno stato depressivo preesistente o se il paziente cade nel cosiddetto burn out, quella fase di esaurimento, nella quale non riesce più a rispettare il trattamento a cui inizialmente aveva aderito (un fenomeno che si riscontra più spesso nei diabetici di tipo 1). Ma, in situazioni meno specifiche, quando non si tratta di fare psicoterapia, ma educazione terapeutica, noi diabetologi abbiamo le competenze per occuparci del paziente. L’importante è che teniamo ben presente l’aspetto psicologico della malattia cronica e non lo trascuriamo”.
Secondo Di Berardino, il diabetologo oggi è più in grado che in passato di gestire questa problematica: “Noi medici siamo, per formazione culturale, più abituati a trattare l’emergenza, nella quale c’è un piano d’azione da seguire e il malato riceve le cure in posizione passiva -premette- ma ormai, non tanto attraverso il percorso e i titoli accademici istituzionali quanto piuttosto con la formazione Ecm, con i corsi specifici organizzati da associazioni e società scientifiche come la Amd, cominciamo a essere preparati e addestrati a un approccio anche di tipo biopsicosociale alla condizione di cronicità. Ciò che il diabetologo e il suo team devono attuare è una educazione terapeutica strutturata, che parta da un’indagine psicosociale sul paziente e offra una comunicazione efficace, un aumento delle conoscenze, un miglioramento delle modalità di autocura. Sappiamo che migliore è il dialogo medico-paziente, più alta è l’adesione al trattamento e più elevata è la qualità di vita della persona con diabete”.
Su come debba essere la comunicazione al paziente per essere efficace, il diabetologo non ha dubbi:
“Non deve essere direttiva e autoritaria, ma di tipo affettivo ed empatico. Più che persuadere il malato, noi dobbiamo motivarlo: il colloquio motivazionale serve proprio a esplorare le eventuali incertezze e debolezze del paziente, a renderlo consapevole e coinvolgerlo attivamente nella sua situazione e nel percorso che dovremo fare insieme per portarlo alla capacità di gestirsi autonomamente”.
Fra gli elementi che aiutano questo lavoro sul paziente certamente non c’è il diffuso culto dell’immagine e della perfezione del corpo che tanto ha preso piede, da alcuni anni a questa parte, nei mass media, nella pubblicità e nella mentalità comune e che può far sentire il diabetico ancora più inadeguato: “Certi modelli -concorda il dottor Di Berardino- accentuano il disturbo psicologico del paziente, il senso di diversità e solitudine”.
Importantissimo è invece il supporto dei familiari, che sono inevitabilmente coinvolti dal diabete di uno dei loro cari: “possono fare molto, possono incoraggiare, aiutare, non far sentire sola la persona (per esempio, un uomo sposato, che abbia una partner, sta meglio di uno che viva da solo) e possono essere agganci e riferimenti preziosi per il team diabetologico”.
In sostanza, conclude Di Berardino, “difficoltà insormontabili non ce ne sono”, se si tiene presente quanto detto all’inizio: non c’è solo il corpo che ha bisogno di cura, ma anche la mente.