Dalla testa ai piedi

IL PUNTO

INTERVISTA A GIULIO MARIANI DEL SAN CARLO DI MILANO

Dalla testa ai piedi

Il paziente nella sua interezza, fisica e psicologica: così si curano le persone con diabete. Ce lo spiega un diabetologo di lungo corso, che ci parla anche di assistenza, prevenzione e di quello che le istituzioni sanitarie ancora non hanno capito

Proprio così: dalla testa ai piedi. Per curare bene un paziente con il diabete è necessario un approccio globale, che tenga conto, nello stesso tempo, sia di tutte le varie problematiche fisiche sia di quelle psicologiche, perché questa patologia coinvolge tutta la persona nella sua integrità.

E’ quanto fa da tempo, con l’ausilio della sua équipe, il dottor Giulio Mariani, responsabile dell’Unità operativa di diabetologia dell’Ospedale San Carlo di Milano e pioniere dell’educazione terapeutica sin dagli anni Ottanta.

Spiega infatti Mariani: “Quello che è stato avviato all’inizio degli anni 80 è stato progressivamente sviluppato e migliorato fino ad arrivare a quell’approccio sistematico che abbiamo oggi nei confronti del paziente. Un approccio che richiede integrazione perfetta tra le varie componenti che interagiscono con il paziente nel suo piano di cura: in particolare, nel caso dell’équipe diabetologica, il medico e le infermiere che si prendono cura della persona con tutta una serie di attività di assistenza, sostegno ed educazione sanitaria. Nel tempo abbiamo verificato come questa visione innovativa ci permetta di supportare meglio i nostri pazienti e di ottenere risultati migliori attraverso una condivisione delle strategie terapeutiche”.

Il team di Mariani è costituito da tre infermiere di diabetologia -Patrizia Colapinto, Carmela Carrano, Gina Ingegneri- la prima delle quali, la dottoressa Colapinto, è laureata in psicologia, a conferma dell’importanza che deve essere data alla mente, oltre che al corpo, del paziente.

“Noi cerchiamo sempre il dialogo con i nostri pazienti -prosegue Mariani- e ne ricaviamo notevoli soddisfazioni. Ecco perché abbiamo avviato un progetto, insieme con la cattedra di psicologia dell’Università Bicocca di Milano, volto a studiare la personalità del paziente, in particolare di tipo 1, al fine di capire meglio le difficoltà che può incontrare dal punto di vista caratteriale di fronte a una patologia che lo accompagnerà per tutta la vita. Cerchiamo di capire i punti deboli e i punti di forza dei pazienti in modo da adattare i piani terapeutici ed educativi alle loro caratteristiche. Ho verificato che il paziente di solito ha la motivazione giusta per curarsi, bisogna però semplificargli il cammino, sennò rischia di perderla”.

Osserva in proposito la dottoressa Colapinto: “Puntare sui punti di forza non significa accantonare o negare quelli di debolezza, ma vuol dire guardare la cura con una visione diversa non distruttiva ma costruttivista. È molto importante evitare di identificare la persona affetta da diabete con la malattia stessa: bisogna invece vederla come una persona che è produttiva, socialmente attiva e capace di progettare futuro. Occorre dare fiducia al paziente e credere nella sua capacità di gestire la sua condizione. L’ascolto attivo del paziente diabetico e delle persone che gli vivono accanto  è  indispensabile per cogliere i momenti di sconforto e permette di sostenerli e rimotivarli alla cura”.

Allo sviluppo degli aspetti relazionali del rapporto medico-paziente contribuiscono da tempo anche le iniziative messe in campo con il volontariato, come gli weekend per diabetici e loro familiari organizzati dalla diabetologia del San Carlo insieme con l’Associazione diabetici della provincia di Milano, guidata da Maria Luigia Mottes, di cui Giulio Mariani è presidente onorario. Alla loro realizzazione hanno contribuito in modo significativo il professor Orlando Bassetti e la dottoressa Renata Lesca, psicopedagogisti, che collaborano con il team di Mariani e con l’associazione.

Se però sino a questo momento abbiamo sottolineato il versante positivo del lavoro del diabetologo, non possiamo trascurare che si tratta di un’attività impegnativa, chiamata ad affrontare problematiche serie, a cominciare dalla cura di pazienti già colpiti da complicanze gravi, come l’infarto, l’ictus, il piede diabetico, l’insufficienza renale che obbliga alla dialisi.

Ebbene, questo duro lavoro, secondo Mariani, oggi non ottiene, in termini di risorse e di riconoscimento, tutto quello che gli spetterebbe: “Oggi ci troviamo in una fase in cui la diabetologia tende a essere sottostimata, perché considerata poco redditizia dal punto di vista dei drg, cioè secondo un criterio meramente economico. Non è neppure riconosciuta come specialità a livello europeo. Eppure, il diabetologo è uno specialista che sa trattare una gamma vastissima di materie: dall’ortopedia alla gravidanza, dai problemi pediatrici a quelli neurologici a quelli nefrologici. Ha una specificità che nessuna altra specialità possiede. E invece ci ritroviamo pochi ed esausti, quasi come se fossimo gli ultimi dinosauri: però, prima di estinguerci, vogliamo lasciare traccia di quello che abbiamo creato. E infatti, per esempio, in Lombardia siamo entrati dalla porta principale nelle cardiologie con protocolli condivisi per la gestione del paziente infartuato”.

A Mariani non mancano, d’altronde, la combattività e la voglia di partecipare: non soltanto per la categoria (è stato consigliere e presidente regionale della Amd Lombardia), ma anche in favore dei pazienti: “Io sento particolarmente forte -confida- l’impegno di schierarmi al fianco dei pazienti e di condividere le loro battaglie per la difesa di diritti che sono spesso negati dalla burocrazia. D’altra parte, sono convinto che, per governare meglio il sistema, questo non basta: bisogna anche cercare di entrare nei meccanismi di governo regionale della sanità. Ecco il perché della mia partecipazione al Gruppo di approfondimento tecnico in Regione Lombardia come referente clinico”.

E tra le battaglie che Mariani ha appoggiato in Lombardia vi è stata anche quella sulla gara, bandita in alcune Asl, per la fornitura degli strumenti di diagnosi e cura, che avrebbe causato limiti alla libertà di scelta del medico e del paziente. Una gara attualmente sospesa in seguito alle proteste delle associazioni di volontariato e dei diabetologi.

Commenta in proposito Mariani: “Sostengo da tempo che qualsiasi apparecchio utilizzato dai pazienti non è un giocattolo, ma  uno strumento clinico che serve per fare le opportune verifiche e concordare le terapie necessarie per controllare meglio il diabete e migliorare la qualità di vita delle persone. Ritengo più proficuo che gli organi istituzionali (Asl, Regione eccetera) non si limitino a valutare esclusivamente quantità e costi, ma tengano conto dell’appropriatezza dell’uso e delle esigenze dei pazienti. In particolare, ora che i sistemi di automonitoraggio glicemico sono prescrivibili anche dai medici di medicina generale, ritengo che siano imprescindibili le verifiche sull’utilizzo, ma non le penalizzazioni e le limitazioni. Una questione analoga sta sorgendo ora sulle prescrizioni protesiche per il piede diabetico, dove siamo vincolati a un vecchio nomenclatore con tariffe risalenti a molti anni fa, che non di rado costringono i pazienti a pagare di tasca loro per coprire la differenza rispetto ai prezzi attuali”.

Insomma, burocrazia e mentalità riduttivamente economicista ostacolano la piena efficienza nel campo dell’assistenza diabetologica: “Secondo me -continua il diabetologo- il problema è, banalmente, che gli amministratori, per lo più, non sanno che cosa significhi essere diabetico e soprattutto che cosa voglia dire fare una diabetologia quale quella che noi abitualmente professiamo. Ritengono che basti prescrivere mezza pillola in più o mezza in meno o due unità di insulina in più o in meno per risolvere i problemi clinici dei nostri pazienti. Chi ci governa non ha ancora ben capito che curare una patologia cronica significa aiutare il paziente in vari momenti della sua vita, in varie situazioni che possono complicare il suo cammino: un compito che richiede uno studio e un impegno particolari”.

A parere di Mariani, questa mentalità ristretta è anche uno degli ostacoli che si frappongono a una vasta opera di prevenzione del diabete e delle sue complicanze, che lui ritiene fondamentale.

“Mi ha colpito -ci racconta- un dato emerso da uno studio sulle modalità di ricovero dei pazienti in Lombardia, dove, peraltro, siamo in una situazione abbastanza buona quanto ad appropriatezza: risulta che donne e uomini delle classi meno agiate siano più frequentemente ricoverati e abbiano tassi di mortalità più alti rispetto alle classi più abbienti, perché, oltre al tipico quadro di sindrome plurimetabolica, hanno più spesso quelle comorbidità che si associano al diabete. Si direbbe che. in una patologia cronica per cui è necessario un importante intervento preventivo, le classi meno abbienti siano le più penalizzate, perché meno seguite e informate: queste persone non andrebbero curate quando si ammalano, ma andrebbero cercate prima che si ammalino”. La conclusione di Mariani -che è anche un appello- è che “questo deve essere l’obiettivo della programmazione sanitaria: curare sì i pazienti che hanno già la patologia, ma anche cercare di prevenirla andando a stanare coloro che hanno possibili fattori di rischio di svilupparla. Partendo da qui potremmo dire che qualche reflettometro in più, qualche striscia in più ci farebbero risparmiare un sacco di soldi, ma soprattutto farebbero guadagnare in qualità di vita molte persone”.

Dal canto loro -prosegue il  dottor Mariani- “i diabetologi dovranno prestare particolare attenzione ai ceti sociali più deboli e a quei pazienti più difficili da gestire, quelli che spesso ci danno pochissime soddisfazioni perché poco aderenti alla terapia, ma che ci deprimeranno ben di più quando poi li dovremo curare perché, oltre al diabete, avranno anche gravi complicanze, come spesso succede. Ma i diabetologi da soli non possono fare tutto. Perciò è opportuno che le istituzioni capiscano la drammaticità della situazione e intervengano non solo razionalizzando le spese o promuovendo progetti di integrazione ospedale-territorio spesso fallimentari, ma si facciano carico del problema investendo contemporaneamente in termini di prevenzione sia sui medici di medicina generale sia sui centri specialistici”.