DIABETE E SPORT – CLIMBTREK: IL CAMPO ADIQ AD ARCO DI TRENTO

Arrampicarsi per imparare

Tre giorni di attività sportiva in montagna e di confronto e discussione su terapia e autocontrollo per quindici ragazzi con diabete di tipo 1. Per divertirsi e approfondire conoscenze e capacità di autogestirsi. Ce ne parla il presidente degli Alpinisti diabetici in quota Marco Peruffo

Questa volta era l’arrampicata su parete il piatto forte del campo estivo di Adiq (Alpinisti diabetici in quota), l’associazione di volontariato che da otto anni diffonde la pratica sportiva tra le persone con diabete, mettendole a contatto con il suggestivo mondo della montagna e impegnandole in attività al tempo stesso salutari ed educative. L’iniziativa, di cui abbiamo parlato con Marco Peruffo, presidente dell’associazione, si è svolta ad Arco di Trento dal 30 agosto al 2 settembre. Si è trattato di una variante nel quadro dei programmi periodicamente organizzati dall’Associazione (l’estivo DiabTrek, basato sul trekking, e l’invernale SnowDiab, alle prese con la montagna innevata): quest’anno è stato ClimbTrek, arrampicata su roccia e vie ferrate in un rinomato centro, sul lago di Garda, specializzato in turismo sportivo, che tutti gli anni attira appassionati arrampicatori italiani e stranieri. Qui -come spiega Peruffo- ci si può arrampicare in assoluta tranquillità, perché c’è un’organizzazione che investe sistematicamente sulla sicurezza delle strutture e dei territori.

ClimbTrek -realizzato da Adiq con il contributo non condizionato di Bayer- ha visto la partecipazione di quindici ragazzi dai 14 ai 18 anni, soltanto tre dei quali avevano esperienza di questa attività, gli altri dodici erano invece neofiti. Con loro c’erano i diabetologi Massimo Orrasch di Trento e Franco Fontana di Alessandria, la nutrizionista Paola Branzi di Verona, il pedagogo Gianermete Romani, due guide alpine patentate di Treviso (garanti della sicurezza), e nove alpinisti di Adiq (tra i quali anche il presidente dell’Associazione trentina diabetici Paolo Cristofoletti).

Ci racconta Peruffo: “Abbiamo fatto due vie ferrate e una giornata di arrampicata, spostandoci sempre dall’albergo in mountain bike o a piedi per raggiungere i posti; si faceva l’attività arrampicatoria e poi si tornava all’albergo in bicicletta. Può sembrare una banalità, però, siccome la nostra iniziativa vuole promuovere l’attività sportiva soprattutto in chi la fa non in maniera costante o a livello agonistico, questo è stato un bel banco di prova: dopo una decina di chilometri in bicicletta per arrivare alla parete molti dei ragazzi erano già in ipoglicemia. Bici, sentiero, arrampicata, movimento a bassa intensità per tre ore è in realtà già un bell’impegno fisico”.

Impegno fisico certamente sì, alto rischio no. “La montagna ha dei rischi in sé -puntualizza Peruffo- Noi però assumiamo tutte le accortezze necessarie a ridurli al minimo”.

Spiega infatti il presidente di Adiq: “Quello che noi tentiamo di fare è soprattutto promuovere l’attività all’aria aperta: quindi, anche ciò che abbiamo proposto quest’anno come arrampicata non era certo su pareti alte o strapiombanti, è stato più un gioco-arrampicata, attività che in paesi subalpini come Francia, Svizzera o Austria si insegna anche nelle scuole (noi in Italia purtroppo abbiamo un gap culturale in questo campo e queste cose non le insegniamo). Il nostro approccio è stato quello del gioco: non ci si devono immaginare persone slegate, a picco sullo strapiombo. Abbiamo scelto una prova in sicurezza che procurasse ai ragazzi soddisfazione e divertimento. E anche un po’ di fatica fisica giornaliera: il programma tipo era sveglia alle 7 la mattina, briefing con i due diabetologi per aggiustamenti terapeutici prima di affrontare la giornata, colazione alle 7 e mezza, partenza tra le 8.30 e le 9, pranzo al sacco, e rientro all’albergo verso le 16-16.30 per fare attività educativa di gruppo con il pedagogo, il diabetologo e la nutrizionista. Stare fuori dalle nove alle quattro del pomeriggio per quasi tutti i ragazzi era qualcosa a cui non erano abituati: è questa la scossa che noi vogliamo dar loro con i nostri campi”.

La fascia d’età dei partecipanti, quella adolescenziale e immediatamente successiva, non è casuale: “Ci siamo focalizzati su quell’età -prosegue Peruffo- perché noi vogliamo dare dei messaggi e in quegli anni i ragazzi sono spugne, assorbono moltissimo. La nostra speranza è che si appassionino e magari continuino con questa attività che poi è salutare per la gestione del diabete”.

L’esperienza insegna che i campi di Adiq hanno successo da entrambi i punti di vista: chi vi partecipa si diverte e impara a migliorare il proprio autocontrollo. È stato così anche quest’anno ad Arco.

“Alla fine dei campi i ragazzi sono entusiasti anche se affaticati -approfondisce Marco Peruffo- però questo risultato non è solo insito nelle attività che proponiamo, ma anche nel modo in cui le proponiamo: il pedagogo conduce e sollecita le discussioni nelle attività di gruppo, partecipa tutta la giornata a ciò che facciamo, così come i diabetologi e la nutrizionista. Si crea una interazione costante: per esempio, i ragazzi parlano con loro durante l’attività e poi si finisce la discussione durante la fase pomeridiana o a cena. In pratica, non si stacca mai la spina e la discussione diventa permanente. Inoltre, ricordo che Adiq è formata da soggetti che hanno tutti lunghi anni di diabete alle spalle e hanno quindi grande esperienza da trasmettere, in particolare con l’attività sportiva”.

Una menzione particolare Peruffo la riserva al pedagogista-educatore Gianermete Romani (di cui i nostri lettori avranno potuto apprezzare un bell’intervento su Tuttodiabete 3/2011), da otto anni presente nelle iniziative di Adiq: “una persona di sensibilità incredibile, con grande capacità di empatia con i ragazzi, capace di creare i canali per cui i ragazzi si aprono e si fidano e di dar così il via al gioco di squadra”.

Alla fine delle giornate, i ragazzi si sono mostrati molto contenti: l’impressione di Peruffo è che abbiano apprezzato più le vie ferrate, le camminate, i percorsi in mountain bike che l’arrampicata, forse apparsa più difficile, più indicata per veri appassionati del genere. Ma il bilancio è positivo anche per quanto riguarda la cruciale relazione diabete-sport-autogestione: “I ragazzi imparano sulla loro pelle come affrontare crisi ipoglicemiche, magari anche ripetute, e quali siano i benefici prodotti dallo sport. Ipoglicemie ve ne sono state, perché, quando si fa attività sportiva aerobica, c’è sempre il rischio di andare in ipoglicemia se si fa troppa insulina. È il messaggio educativo che i ragazzi devono apprendere. A ogni modo, non c’è stata nessuna ipoglicemia grave, siamo sempre rimasti all’interno del range di controllo”.

Peruffo sottolinea che Adiq prevede sempre il pronto intervento in caso di crisi ipoglicemiche: non soltanto raccomanda ai ragazzi di portarsi dietro l’occorrente, ma fornisce regolarmente succhi di frutta, tè zuccherato, carboidrati complessi in forma di barrette e biscotti, in modo tale che i ragazzi siano sempre iperprotetti.

Uno dei dati significativi dal punto di vista terapeutico, emerso dall’esperienza di Arco, è stata la conferma della positiva risposta dell’organismo all’attività sportiva: si è infatti registrato un abbassamento della quantità di insulina da assumere per tutti, sia per chi usa il microinfusore sia per chi pratica la terapia multiiniettiva.

“E poi -osserva Peruffo- è importante il fatto che i ragazzi, pur seguiti dai diabetologi e da noi, abbiano cominciato a ragionare sui valori glicemici, a capire concretamente, per esempio, che, se si fanno tre ore di bicicletta e movimento, occorre ridurre l’insulina e mangiare più carboidrati per prevenire crisi ipoglicemiche durante l’attività fisica”.

A cinque dei partecipanti, i più esperti del gruppo, Adiq ha poi proposto un esperimento, chiamato “route di orientamento glicemico”: strettamente seguiti dai diabetologi e dagli alpinisti dell’Associazione, i ragazzi dovevano imparare a valutare la loro glicemia senza guardare i valori registrati dai loro misuratori (che invece erano verificati dai loro angeli custodi). Spiega Peruffo: “Noi tenevamo nascosti i valori e loro dovevano provare a gestire il mangiare e la terapia insulinica basandosi sul loro istinto e sulle loro sensazioni. Nella giornata più leggera, abbiamo monitorato noi le glicemie e ai ragazzi davamo riscontro solo se erano fuori target: loro si gestivano secondo le loro sensazioni (“mi sento la glicemia  a 200”), ce le comunicavano e noi davamo loro indicazioni solo se erano in grande eccesso o in grande difetto, se pensavano di dovere ipercorreggere o ipocorreggere la terapia”.

L’esperimento, secondo Peruffo, era molto interessante, perché “i ragazzi di oggi, diversamente da chi come me si è ammalato in un’epoca in cui i glucometri non esistevano, sono assolutamente dipendenti dai misuratori di glicemia e rischiano di non percepire determinati sintomi. Il risultato positivo del nostro test è stato che, nonostante i nostri timori, i cinque ragazzi, sono riusciti ad autovalutarsi molto bene anche senza vedere direttamente i loro valori glicemici. In dieci ore di attività, abbiamo fatto otto rilevazioni di glicemia e poi la sera abbiamo riportato tutti i profili glicemici, fatto i confronti con i valori che loro pensavano di avere e abbiamo discusso tutti insieme. Alla fine abbiamo constatato che erano stati in grado di orientarsi bene: il gap medio era del 25% (per esempio, se la glicemia reale era 100, potevano sentirsela a 125 o a 75); tutti hanno sempre avvertito le ipoglicemie tra 60 e 70 di valore, che è la cosa più importante: si accorgevano e si fermavano dicendo “mi sento in ipoglicemia”; ed era vero, come confermava la misurazione. Tutto questo è davvero un buon segno”.