Diagnosi di diabete di tipo 2: un momento “di insegnamento”?

Lo dice la ricerca, ma, purtroppo, anche l’esperienza comune: quando viene diagnosticata una malattia, specie se cronica, si tratta sempre di un momento altamente emotivo nella vita di un paziente. In particolare, in caso di malattie come il diabete di tipo 2, numerosi studi hanno osservato che, al momento della diagnosi, le persone provano in varia misura sentimenti associati alla rabbia, all’ansia e allo shock dovuto alla ricezione di una notizia sulla propria salute. 
Eppure si possono vedere le cose anche da un’altra prospettiva. La diagnosi di diabete di tipo 2, infatti, può avere un’altra valenza – decisamente più positiva – per le persone che la ricevono e per chi sta loro accanto: essa, infatti, si può trasformare in un momento “di insegnamento” utile per migliorare il proprio stato di salute, oltre a poter favorire, nei familiari, i comportamenti che promuovono la prevenzione della malattia stessa. Un recente studio effettuato nel Regno Unito indaga, attraverso interviste semi-strutturate, questa interessante prospettiva: vediamo insieme di cosa si tratta.

Una diagnosi che “insegna”

Innanzitutto, cosa si intende, nello specifico, per momento di insegnamento

Si tratta di un concetto espresso in un modello teorico di psicologia comportamentale risalente ai primi anni del Duemila, secondo cui un evento di salute, come per esempio la diagnosi di una malattia, può aumentare la motivazione delle persone che ne sono protagoniste a rispondere in maniera attiva ai messaggi educativi che ricevono dai professionisti sanitari e ad adottare spontaneamente comportamenti che riducono i rischi per la salute
Secondo questo modello, per diventare un momento di insegnamento, la diagnosi dovrebbe sollecitare una risposta emotiva in chi la riceve, aumentare la percezione del rischio e le aspettative sulla salute legate a determinati comportamenti e contribuire a ridefinire il concetto di sé. In realtà, questo modello è stato applicato per la prima volta alle diagnosi di cancro e alla conseguente cessazione del fumo di sigaretta, e anche i lavori successivi sono stati realizzati soprattutto prendendo in esame i pazienti oncologici, con risultati incoraggianti: questi studi hanno dimostrato, infatti, che la diagnosi di una malattia può provocare un cambiamento comportamentale positivo sia nei pazienti, sia nelle persone a essi vicini, soprattutto i familiari. E per quanto riguarda il diabete di tipo 2? 

Per il momento, la ricerca scientifica non ha chiarito se i criteri formulati da questo modello teorico siano applicabili ad altre condizioni di salute croniche oltre che ai tumori, sebbene alcuni studi suggeriscano che, per esempio, la diagnosi di diabete di tipo 2 possa indurre un cambiamento comportamentale positivo in chi la riceve. In effetti, molte malattie croniche possono essere prevenute e gestite attraverso cambiamenti comportamentali, e la diagnosi della malattia stessa potrebbe essere un momento cruciale per avviare nei pazienti cambiamenti comportamentali che avrebbero ricadute, a breve e a lungo termine, sulla loro salute. Per verificare questa ipotesi, un gruppo di ricercatori dell’università di Stirling, nel Regno Unito, ha condotto uno studio qualitativo per capire se si potesse applicare il modello della diagnosi come momento di insegnamento al diabete di tipo 2.

Lo studio e i risultati 

In particolare, i ricercatori hanno voluto verificare se la diagnosi di questa condizione potesse soddisfare, nei pazienti e nei loro familiari, i requisiti postulati dal modello comportamentale, ovvero se le persone sperimentassero una forte risposta emotiva, un aumento della percezione del rischio di salute e una riformulazione del concetto di sé. Per farlo, hanno condotto interviste semi-strutturate con 23 partecipanti (di cui 10 persone con diabete di tipo 2 e 13 familiari di persone con diabete di tipo 2), esplorandone i cambiamenti cognitivi, emotivi e comportamentali in seguito alla diagnosi di diabete di tipo 2 in loro stessi o in un parente.

In primo luogo è emerso che, sebbene una forte risposta emotiva sia una condizione postulata dal modello teorico, non sempre aiuta a trasformare la diagnosi in un momento di insegnamento: nelle interviste, infatti, sebbene quasi tutti i partecipanti avessero riferito di aver provato forti emozioni in seguito alla diagnosi (‘‘Nel primo mese, dopo la diagnosi, ho fatto fatica a dormire in tre o quattro occasioni, ho avuto questo pensieri invasivi come pensare di morire, il che è strano per me. Non li ho mai avuti prima in vita mia”), queste ultime hanno evocato risposte comportamentali molto diverse tra loro. In alcune persone le emozioni, come lo shock e la sorpresa, le hanno motivate ad adottare quasi immediatamente cambiamenti comportamentali per diminuire il rischio e proteggere la loro salute (“Suppongo che inizialmente mi sentissi davvero sollevato perché pensavo: beh, non sono stato bene per questo motivo, e ho pensato che finalmente ci fosse qualcosa che potessi fare a questo proposito“; ‘‘Sapevo già di alcune complicazioni, ma quando ti viene effettivamente diagnosticata [la malattia] le comprendi meglio e tutto questo ti fa essere più attento in certe situazioni”). Tra i comportamenti adottati vi era l’aumento dell’attività fisica, la riduzione dell’assunzione di carboidrati e zuccheri, assunzioni di porzioni più piccole di cibo e prendersi cura dei propri piedi

Eppure, in altre persone, soprattutto in quelle in cui l’emozione associata alla diagnosi era soprattutto la paura ed esse non erano convinte della loro autoefficacia o dell’efficacia di comportamenti specifici, la diagnosi non favoriva il cambiamento comportamentale, anzi determinava l’inizio di una sorta di fase di negazione (‘‘Presumo che sia abbastanza comune, che ci sia una specie di processo di lutto, un periodo di negazione all’inizio, vero? Niente di tutto questo può capitare davvero a me, non essendo proprio in grado di elaborare quello che sta succedendo…”).

Per quanto riguarda la percezione del rischio, le persone intervistate che erano figli dei pazienti con diabete di tipo 2 avevano più probabilità di sperimentare un aumento della percezione del rischio della malattia e di conseguenza adottare comportamenti salutari (‘Prima della diagnosi pensavo: sto bene, non ho bisogno preoccuparmi della mia vita; ma appena mio padre ha ricevuto la diagnosi è stato come: aspetta, e se la ricevessi anche io, come mi influenzerà in futuro? […] Mi ha fatto pensare: giusto, devo fare questo, devo fare tutto questo per non arrivare nella stessa condizione [di mio padre]. Quindi [la diagnosi] mi ha dato una svegliata per non raggiungerla”, racconta il figlio di un paziente con diabete di tipo 2). Questo però, sembrava non valere nei partner con diabete di tipo 2, anzi: molti di loro paragonavano i loro comportamenti a quelli del partner, immaginando che i loro stili di vita non potessero condurre al diabete di tipo 2.

Infine, come afferma il modello teorico, anche nel diabete di tipo 2 la diagnosi porta a un cambiamento nel concetto di sé, che a sua volta aumenta la probabilità di attivare cambiamenti comportamentali, soprattutto nei pazienti con diabete (“[Per fare attività fisica] devo andare a spasso con il mio ‘cane immaginario’: mi impongo di non addormentarmi sul divano, perché penso che farlo sia causa del diabete. Non so se lo sia, ma nella mia testa sì”; “Fino a che punto vale la pena mangiare, soprattutto ora che ne conosco le conseguenze, fino a che punto vale la pena questo farsi del male? Sai… è deliberatamente distruttivo (…). Elaborare la mia identità con il cibo, elaborare la mia relazione in quell’ambito riesce a essere una grande cosa per me, in termini di come mi vedo. Il diabete mi ha decisamente cambiato e potrei aprirmi ad alcune cose spiacevoli sui comportamenti distruttivi che ho e su come, per esempio, schivo in continuazione le relazioni”); nei familiari, invece, non è stata rilevata questa stessa spinta al cambiamento.

In conclusione, secondo gli autori la diagnosi del diabete di tipo 2 è un momento di insegnamento per alcuni pazienti e i loro familiari. I risultati dello studio potrebbero avere implicazioni pratiche per la gestione del diabete di tipo 2 nei pazienti a cui è stato diagnosticato e per la prevenzione nei loro familiari: i fattori suggeriti (forte risposta emotiva, percezione personale del rischio, concezione di sé) potrebbero essere incorporati in brevi interventi erogati dagli operatori sanitari, allo stesso modo in cui questi ultimi si sono dimostrati efficaci per far smettere di fumare e di assumere alcol.

A cura di Chiara Di Lucente


Fonti:

  • Dimova ED, Swanson V, Evans JMM. Is diagnosis of type 2 diabetes a “teachable moment”? A qualitative study. Diabetes Res Clin Pract. 2020 Jun;164:108170. doi: 10.1016/j.diabres.2020.108170. Epub 2020 May 1. PMID: 32360712.
  • Xiang, X. (2015). Chronic Disease Diagnosis as a Teachable Moment for Health Behavior Changes Among Middle-Aged and Older Adults. Journal of Aging and Health, (), 0898264315614573–. doi:10.1177/0898264315614573 
  • Peel E, Parry O, Douglas M, Lawton J. Diagnosis of type 2 diabetes: a qualitative analysis of patients’ emotional reactions and views about information provision. Patient Educ Couns. 2004 Jun;53(3):269-75. doi: 10.1016/j.pec.2003.07.010. PMID: 15186863.