Il diabete di un padre e quello di un figlio. Francesco Zazza ci racconta una storia famigliare in cui ogni componente è unico

Se c’è una cosa che abbiamo imparato e che anche il diabete non manca di sottolineare – ogni volta – con beffarda determinazione, è che a questo mondo non esiste un essere umano uguale a un altro.
L’unicità è il succo. Siamo tutti unici.
Certo, lo si può credere in termini teorici, astratti, attingendo a ciò che si pensa o spera.
Ma il diabete tutto è tranne una faccenda teorica.
Il diabete tutto è tranne qualcosa di astratto.
Eppure, stessa patologia, risposte differenti. Mai una terapia che vada a pennello per uno e anche per l’altro.
Neppure se si tratta di un padre e di un figlio.
Nemmeno in questo caso, quando le distanze si accorciano al massimo, quando il legame è il più profondo di tutti e quando ci si aspetta, per lo meno, una qualche affinità in termini di risposte.
No. Unicità.

L’ha sperimentato bene Francesco Zazza, che a 10 anni si è dovuto confrontare con il diabete. Ha continuato a praticare sport, basket per la precisione. I genitori non gliel’hanno mai fatto pesare, e lui afferma di averci convissuto con gradi di sopportazione ragionevoli.
“Eppure ho iniziato a farmi le punture davanti agli altri solo dopo il 2010. Prima andavo in bagno”.
“Cosa è successo nel 2010?”, gli chiedo.
“Era la giornata mondiale del diabete e ho visto mio figlio che se le faceva davanti a tutti e che era molto più disinibito di me. È stata una liberazione fare lo stesso”.

Il figlio di Francesco, l’esordio l’ha avuto a 2 anni.
“Non volevo vedere i sintomi, ma c’erano tutti”. E non è la prima volta che sento un’affermazione del genere da parte di un genitore col diabete.
Non sono madre, ma posso immaginare come tutto si possa alla fine accettare per noi stessi, ma nulla si vorrebbe accettare per i figli.
E Francesco si aggira nei corsi e ricorsi della sua storia famigliare, riconoscendo analogie e diversità.
“I miei genitori mi lasciavano molto più libero. Io sono più severo nel fargli seguire la terapia e una corretta alimentazione”.
“E tuo figlio come risponde?”.
“Mi dice: so cosa devo fare”.
Abbozza una risata e anche a me viene voglia di sorridere.
Ecco qui, di nuovo, il nodo di questo racconto: l’unicità.

Il diabete di Francesco e quello di suo figlio. Il fatto che Francesco vorrà sempre proteggerlo, ma non potrà mai colmare quelle diversità che non è soltanto generazionale.
Un padre e un figlio.
Un uomo e un ragazzo.
Insegnare e imparare. Entrambi, entrambe le cose.
Francesco può insegnare – e non solo a suo figlio – l’amore grande per lo sport, che ha attraversato tutte le discipline: nuoto, corsa, tennis, pallavolo; per poi approdare alla bicicletta. Si definisce un cicloturista a cui piace pedalare, immergendosi nella natura.
Suo figlio gli ha insegnato a non nascondersi. Un dei tanti esempi di come, a volte, i bambini, i ragazzi, i giovani sappiano essere grandi maestri di vita.
E questo è un tema che sottolinea anche con me. Bisogna sfatare tutti i tabù sul diabete, parlarne, fare gruppo. Comprendere chi può aiutare e chi no. E scegliere sempre i primi. Scegliere di salvaguardare la propria salute fisica e mentale.
“Tu sei un ottimista, Francesco?”, gli domando.
“Prima dell’esordio del diabete di mio figlio ero un tipo realista. Ma ora, sì. Ora cerco di essere ottimista. Non puoi non esserlo quando tuo figlio ha una patologia cronica. È importante cercare sempre la soluzione. Poi ragionare sull’accaduto”.
Che si scelga l’ottimismo, dunque. Che non si rinunci al realismo, che serve sempre.
Ma soprattutto che non ci si dimentichi della propria unicità.

A cura di Patrizia Dall’Argine