Indagine
COME SI CURA IL DIABETE IN ITALIA
Il ritratto dell’assistenza
Gli Annali Amd 2007, basati sui dati provenienti dai centri diabetologici informatizzati presentano un quadro attendibile delle caratteristiche dei pazienti italiani e del modo in cui sono seguiti e assistiti. Una situazione complessivamente positiva, con alcuni aspetti da migliorare
Se oggi il diabete costa ben il 7% del totale della spesa sanitaria italiana, è importante andare a vedere quali sono le caratteristiche della popolazione diabetica, come funziona l’assistenza, come i pazienti rispondono alle cure, dove occorrano più risorse, dove se ne possano eventualmente risparmiare. L’Associazione medici diabetologi mette a disposizione di quest’opera uno strumento prezioso, gli Annali, “Indicatori di qualità dell’assistenza diabetologica”, un’analisi della situazione basata sui dati raccolti da 95 centri diabetologici dotati di cartella clinica informatizzata su circa 140mila pazienti. Il rapporto 2007, da poco pubblicato, è il secondo studio del genere condotto da Amd (il primo è del 2006) ed è stato curato da Antonino Cimino, Gualtiero de Bigontina, Carlo Giorda, Illidio Meloncelli, Antonio Nicolucci, Fabio Pellegrini, Maria Chiara Rossi, Giacomo Vespasiani.
Le rilevazioni sono recenti (anno 2005) e costituiscono un data base attendibile e rappresentativo, offerto come “riferimento utile e necessario per il Ministero, le Regioni, l’Assr e tutte le istituzioni che si occupano di politica e organizzazione sanitaria”. Il quadro generale descrive un livello di assistenza complessivamente buono e puntuale, ma mostra anche quali sono i punti chiave sui quali occorre intervenire per migliorare la situazione.
Lo studio di Amd ci conferma innanzitutto che oltre il 92% dei pazienti è affetto dal tipo 2, la forma largamente prevalente, e ci segnala anche la tendenza espansiva della patologia, rivelandoci che quasi il 14% delle visite fatte nel periodo considerato riguardava persone che si presentavano al centro per la prima volta.
Gli uomini sono in percentuale superiore alle donne: 53,7 contro 46,3%. Più significativo è però il dato relativo alle fasce di età, che fa risaltare il peso della popolazione anziana: infatti, circa il 60% degli assistiti ha 65 anni o più e il 26% è oltre i 75. E’ da rilevare inoltre che il 33% si colloca fra i 45 e i 65 e più del 7% ha meno di 45 anni. Naturalmente, nel diabete di tipo 1 le fasce di età più presenti non sono quelle più anziane: infatti, per il 25% si tratta di persone fra i 35 e i 45 e il 20% fra 25 e 35 e più del 18% è fra 45 e 55. Gli over 65% sono circa il 15%, segno probabilmente che una parte dei diabetici di tipo 1 più anziani cessa di frequentare i centri. Per il diabete di tipo 2, invece, come prevedibile, il 62% ha oltre 65 anni e il 24,6% ne ha più di 55. A differenza di Paesi come Stati Uniti e Giappone, in Italia il secondo tipo rimane abbastanza raro al di sotto dei 35 anni.
Nel corso dell’anno i diabetici si fanno visitare circa tre volte l’anno, con punte più elevate (una media di 3,5) per quelli in cura con insulina, che sono il 17,7%, a cui va aggiunto un 9,5% che, oltre all’insulina, deve ricorrere agli ipoglicemizzanti orali. Con terapia a base di farmaci si cura oltre il 61% dei pazienti, con interventi diretti soltanto su stili di vita e dieta l’11,5%. “Esortiamo ad aumentare il numero delle visite annuali per i diabetici di tipo 1” commenta il direttore del Centro studi e ricerche di Amd Vespasiani.
L’emoglobina glicosilata (o glicata) è ormai unanimemente riconosciuta come uno degli indicatori fondamentali del monitoraggio del diabete e la ricerca di Amd ce lo conferma: infatti, rileva che l’83-84% dei pazienti vi si è sottoposto almeno una volta in un anno. Meno sistematici, “nonostante l’elevato rischio cardiovascolare” connesso, sono i controlli sul profilo lipidico: intorno al 60%. Percentuali di poco superiori anche per le misurazioni della pressione arteriosa. La funzionalità renale è stata controllata nel 54,3% dei diabetici di tipo 1 e nel 47% di tipo 2. Più scarso il monitoraggio sulle condizioni del piede: esaminato il 24% dei soggetti di tipo 2 e il 21% di tipo 1. Su questi ultimi dati, un po’ deludenti, Vespasiani osserva che potrebbe trattarsi non di mancata attuazione dei controlli, ma semplicemente di mancata registrazione.
Tappa successiva dello studio è la verifica degli esiti della cura, a partire dal controllo metabolico rilevato tramite l’emoglobina glicosilata. Considerando come valori raccomandabili quelli al di sotto del 7 o, secondo più recenti valutazioni, del 6,5, si osserva che il buon equilibrio è raggiunto con più difficoltà dai diabetici di tipo 1 rispetto al tipo 2: nel primo gruppo, infatti, soltanto l’8% registra valori pari o inferiori a 6, nel secondo si arriva al 15%. Nel tipo 1 il 40% ha valori uguali o maggiori di 8, mentre nel tipo 2 questa percentuale scende al 27%, e il 30% riesce a mantenersi fra 6,1 e 7. Il rapporto segnala la difficoltà di raggiungere i valori ottimali con i mezzi terapeutici attualmente disponibili e osserva che sono ancora troppi i soggetti che superano il livello 7 (il 72,1% nel tipo 1 e il 54% nel 2),. Nel complesso, il compenso glicometabolico è considerato “discreto”, ma Amd ritiene necessari “interventi terapeutici più incisivi”.
Risulta inoltre che troppi pazienti abbiano un colesterolo “cattivo” (Ldl) troppo alto, cioè sopra i 130 mg/dl: il 27% nel tipo 1 e oltre il 30% nel tipo 2. Troppo bassa (34%) è la percentuale di coloro che rimangono al di sotto della soglia raccomandata dalle linee-guida, i 100 mg/dl. Amd riflette sulla necessità di aumentare i trattamenti, anche alla luce del dato che dimostra come nei soggetti sottoposti a cura ipolipemizzante si scenda sotto i 130 mg/dl nel 63% dei soggetti di tipo 1 e nel 71% di tipo 2.
Fra gli altri parametri importanti, quelli riguardanti la pressione arteriosa segnalano una marcata differenza fra i due tipi di diabete: nel tipo 1 i due terzi mostrano valori adeguati (pari o minori di 130/85 mmHg), ma soltanto un terzo nel tipo 2. Il fatto che circa i due terzi degli ipertesi (soggetti, dunque, in trattamento) non arrivino a valori soddisfacenti, indica che anche su questo punto si deve fare di più.
Il sovrappeso riguarda principalmente i diabetici di tipo 2: ben l’80%; in questa categoria l’obesità marcata (indice di massa corporea superiore a 30, poco frequente nel tipo 1) supera il 38%. Il fumo -forte fattore di rischio vascolare- attrae tuttora più del 27% dei diabetici di tipo primo, sensibilmente di meno gli altri (17,5%). In ogni caso, troppi: qui, scrivono gli autori, occorre un’opera di educazione sanitaria più efficace per far crescere la consapevolezza del pericolo.
Per quanto riguarda le diversità fra aree geografiche, tipiche dell’Italia e quindi riscontrabili anche nella diabetologia- Vespasiani ne sottolinea una particolarmente rilevante: al Nord esistono strutture organizzate dove possono essere monitorare e seguire tutte le complicanze nella stessa sede, mentre al Sud l’organizzazione è fatta di strutture più piccole, collegate tra loro, ma non in grado di fare tutto da sole. Ma, in conclusione -osserva un altro degli autori, Antonio Nicolucci- sul piano dei risultati, non appaiono differenze rilevanti. Un ultimo elemento importante lo ha ricordato il presidente Adolfo Arcangeli alla presentazione del rapporto: “Nel diabete non ci sono risultati se non c’è il coinvolgimento del paziente,a cui va data la massima autonomia possibile nella gestione della salute. A questo deve puntare il lavoro del team diabetologico”.
PARAMETRI DEL BUON COMPENSO
Il nesso tra glicemia e glicata
È probabile che fra non molto si debba cambiare il modo di esprimere il valore della emoglobina glicata. Oggi viene espressa come percentuale della emoglobina totale e si ritiene che si debba perseguire un valore inferiore al 7, se non al 6,5%. Lo studio Adag (HbA1c-Derived Average Glucose), illustrato dal professor Heine della Università di Amsterdam nel recente congresso della Easd nella capitale olandese, ha dimostrato infatti che esiste una precisa correlazione fra il valore percentuale della emoglobina glicata e il valore medio della glicemia. Per questo, si ritiene che esprimere il risultato del dosaggio della emoglobina glicata facendo riferimento diretto alla glicemia possa essere più facilmente comprensibile per i pazienti e quindi anche più efficace nel promuovere un miglior controllo metabolico. (P.B.)