Quello che amo delle storie è l’indiscutibile unicità di ognuna di loro.
Allo stesso tempo, quello che amo nelle storie è l’altrettanto indiscutibile coralità di ognuna di loro.
E questo è il motivo per cui, volenti o nolenti, le storie degli altri ci appartengono e ci raccontano. Nelle sorprendenti analogie che possiamo incontrare, riconosciamo noi stessi.
Ilenia è una mamma. Matilde e Anita sono le sue figlie.
Ilenia è una mamma che ha dovuto confrontarsi col diabete, perché all’età di 5 anni, Matilde si è ammalata.
“Anita era appena nata. Dovevamo riassestarci come famiglia, trovare un nuovo equilibrio. Vedevo Matilde completamente cambiata, spenta. Non le andava di giocare. Non voleva fare nulla. Il pediatra mi aveva detto che era solo gelosia per la nascita della sorellina. Ma i sintomi continuavano. E a questi si aggiungeva una continua richiesta di acqua, notte e giorno”.
Ilenia dal pediatra ci torna altre 7 volte. Lui le dice che è una mamma esagerata, troppo apprensiva, ma lei sente profondamente che c’è qualcosa che non va.
“Lo definirei un sesto senso da mamma”, mi dice.
La storia, a questo punto, comincia ad avere tante assonanze con altre storie già ascoltate e raccontate in questa sede. Un esordio al quale nemmeno un medico vuole credere. A 5 anni non ci si ammala. A 5 anni si fanno i capricci casomai. E una mamma che invece crede a quello che vede.
Arriva il 6 maggio. Matilde fa un test delle urine. Ilenia, dopo poco, viene chiamata con urgenza, mentre è alla cassa in un negozio con un monopattino in mano, un regalo per Matilde. “Devi correre in ospedale. Devi portare Matilde. È un’emergenza”.
La vita si ferma. La vita si ferma sempre quando si sta facendo qualcosa di ordinario, se ci pensiamo. E quel momento ordinario diventa congelato nella memoria. È la frattura visiva di un prima e un dopo. Ilenia mi racconta con molti dettagli quel momento: il portafogli in mano, la figlia più piccola nel passeggino che piange, il telefono all’orecchio, il non riuscire a sentire più nulla, il respiro che si spezza, e l’urgenza di reagire, perché crollare è l’ultima delle cose che può permettersi. Deve correre. Deve portare Matilde in ospedale.
“Aveva 877 di glicemia. Non siamo mai riusciti a comprendere come potesse rimanere cosciente. Mi hanno detto: “Signora, queste 24 ore sono decisive”. Poi l’hanno portata via con l’elisoccorso a Palermo. Ho compreso che dovevo farle vivere quel momento drammatico come fosse un gioco. L’elicottero era diventato il suo mezzo privato, il telecomando del lettino l’ottovolante. Riuscivo a farla ridere. E questo ha fatto sì che, tutt’oggi, Matilde non abbia un ricordo traumatico di quel momento. Non c’è un’età giusta per avere l’esordio. Forse a 5 anni l’accettazione è più semplice rispetto al periodo adolescenziale.
Ora Matilde ha 10 anni e già inizia a mal sopportare il sensore e il micro. Mi dice: ‘Ma perché devo sempre averli con me? Non è giusto’ E io le rispondo: ‘Hai ragione, non è giusto. Ma non è questo che fa di te ciò che sei. E le persone che ti etichettano per il diabete sono da evitare’. In età pediatrica tutto il peso è sulle spalle dei genitori. Dobbiamo dimostrarci forti. Mi ricordo ancora Matilde che giocava con gli amici al parco e che doveva fermarsi per un’improvvisa ipoglicemie e a me si spezzava il cuore, o anche le mattine passate in macchina, nel parcheggio della sua scuola per paura che potesse succedere qualcosa. Poi le cose sono migliorate. L’esperienza aiuta a comprendere e incastrare tutte le variabili. Ho studiato tanto. Ho letto. E la tecnologia mi ha aiutata a rientrare nel mio ruolo di madre e non di assistente personale. Avere sempre accesso ai dati della glicemia è una tranquillità che cambia la vita”.
Ilenia scrive della sua vita e della sua esperienza col diabete nel suo blog: www.diabetica.it
Nella home page c’è una foto bellissima di lei e di Matilde. Sorridono e sono abbracciate. Io la guardo e penso a quanto mi ha detto prima di salutarci e terminare la nostra telefonata:
“L’esordio di mia figlia è stato per me un momento di involuzione personale. Io mi sentivo annullata. È stato come un lutto. Mi guardavo, ma non mi riuscivo a riconoscere”.
Forse riconoscersi è la chiave di questa storia e di tante storie che a questa si assomigliano, nel bene e nel male. Il fatto di ricordarsi, nei momenti di buio, quanto siamo in grado di brillare.
A cura di Patrizia Dall’Argine