“La nigredo rappresenta la fase in cui la materia deve essere decomposta, affinché ritorni al suo stadio primitivo, cioè alla condizione del caos originario da cui ha avuto origine tutta la creazione: dapprima occorre infatti distruggere gli elementi, perché si possano ricomporre successivamente in una sintesi superiore”, questo potete trovare su Wikipedia alla voce nigredo.
Interessante anche quello che si legge sotto: “Nell’ambito della psicologia analitica elaborata da Jung, il termine è diventato una metafora per indicare la notte oscura dell’anima, quando un individuo è condotto a confrontarsi con l’Ombra dentro di sé”.
Irene Malfanti cita questo termine un paio di volte durante la nostra intervista. Dalla distruzione alla creazione. L’attraversamento del buio. Forse è per questo che alle sue foto non è concesso il colore. Forse è per questo che ancora il suo è un racconto in bianco e nero.
Ci vuole tempo. Il tempo di attraversare la propria nigredo, incarnarla, superarla e rinascere.
L’esordio di Irene risale a otto mesi fa. Era dimagrita dieci chili, beveva circa cinque/sei litri di acqua al giorno.
Al centro Antidiabetico di La Spezia, la diagnosi: è diabete di tipo 1. E le dicono che a volte, la scatenante, può essere un forte stress emotivo, un forte dolore. E sì, lo ha avuto. Lo riconosce.
«Sono seguiti dieci giorni di nebbia totale. Sono stata a letto, a riposo. Poi, finito questo periodo, mi sono alzata e sono andata in libreria. Ho iniziato a studiare, a informarmi. Dovevo sapere più cose possibili sul diabete di tipo 1. E ho compreso che, per non impazzire, lo dovevo raccontare. Ho iniziato a fotografare tutto: visite, cibo, ogni azione annessa alla cura. L’ho documentato per cercare di cambiare prospettiva, perché, se lo racconto, tutto diventa una scoperta, una meraviglia addirittura, e non mi sento addosso l’etichetta di malata».
Le fotografie di Irene si possono trovare nella sua pagina instagram, light diabetic diary. Qui potete trovare il suo blog, https://lightdiabeticdiary.tumblr.com/.
Dalle foto sono iniziati incontri e sono state organizzate mostre. Tutto il materiale è in vendita e tutto il ricavato è interamente evoluto a favore della ricerca per il diabete di tipo 1.
«Io non mi sono accontentata di sentirmi dire: ‘Hai il diabete, devi fare l’insulina’ e basta. Ho iniziato a farmi delle domande. Perché adesso? Perché il diabete? Cerco di avere un approccio olistico. Mente e corpo sono collegati. Se il corpo mi dà un segnale così violento, e proprio legato allo zucchero, immediatamente penso al fatto di essere stata manchevole di affetto e tenerezza nei miei confronti.
Affianco alle cure cliniche, altre forme di cura: yoga, meditazione, contatto con la natura. È un lavoro in progress che non finirà mai. Mi sono resa conto che ero cieca, sorda e muta. Vivevo sott’acqua. Il diabete mi ha costretta a una scelta: o continui come prima o cambi. Da un certo punto di vista mi sta salvando la vita, perché mi ricorda tutti i giorni, tutto il giorno, che se non mi prendo cura di me stessa, muoio.
È come un campanello. Scegli con attenzione, mi dice, ascoltati, amati, fidati del tuo sentire. Dovremmo sempre chiederci: Come sto io adesso? Come mi fa stare questa situazione?
Tendiamo un po’ tutti ad abbassare il volume dei nostri bisogni, rispetto ai bisogni degli altri.
Avrei preferito arrivare a queste consapevolezze senza l’insorgere del diabete nella mia vita.
Il mio obiettivo, ora, è quello di conoscermi completamente, diventando la diabetologa e la nutrizionista di me stessa. E poi vorrei che ogni giorno fosse pieno. Mi spaventa l’inutilità, la mancanza di senso. Noi siamo parte dell’universo e siamo chiamati ad espanderci, a crescere e ad evolverci».
Alla fine della nostra telefonata, non so perché – non è una cosa che ricordo di avere mai fatto – sono andata a cercare l’etimologia del nome Irene. Ho scoperto che Irene significa pace, ma anche “tempo di pace”. E mi è sembrato che non potesse essere altrimenti. Perché il tempo delle parole di Iene è stato un tempo nel quale ho avvertito un senso di profondissima quiete.
Forse proprio perché per arrivare a quella pace ha dovuto, prima, affrontare una guerra. Forse perché la sua pace è patrimonio di coloro che hanno il coraggio di guardare in faccia alla propria nigredo.
E sanno che è qualcosa che non si raggiunge una volta per sempre, ma un lavoro quotidiano, una ricerca costante, una scelta.
Irene grazie, per avermelo mostrato così chiaramente.
A cura di Patrizia Dall’Argine