Lhasa (Tibet), 2 settembre 2002
Il resoconto appassionato dei primi giorni di viaggio
Il viaggio in aereo da Kathmandu a Lhasa è qualcosa di unico, almeno per noi alpinisti. Sorvolare la catena dell’Himalaya, la “dimora delle nevi”, ti proietta in una dimensione di equilibrio precario tra il verosimile e l’inverosimile, tra ciò che la memoria conosce come vero attraverso lo studio dei libri e ciò che lo sguardo vede materializzarsi sotto le sembianze di un panorama talmente vero da sembrare inverosimile. Eravamo incerti cosa fossero le imponenti montagne che emergevano sulla nostra sinistra, scrutando dai piccoli oblò, sopra a un mare orizzontale di nubi. Ma l’apparire sulla destra, solitaria e inconfondibile, di una sola grandiosa cima a tre punte, il Kanchenjunga, tirando una linea retta longitudinale sulla cartina, d’un tratto capimmo il nodo geografico. Ancora un minuto di volo più a Nord e le montagne di sinistra si presentarono nella loro impressionante nomenclatura: il Makalu, con la caratteristica spalla del Makalu Lha, porta d’accesso all’ultima parte della montagna per la via normale; il Lhotse e l’Everest, separati dal celebre Colle Sud; in lontananza, il nostro Cho Oyu, con il lungo pianoro sommitale perdersi tra le nuvole, appena sotto gli 8000 metri. Atterrati a Gonkar, ad ovest di Lhasa, la musica cambia. C’è un’atmosfera strana. Saranno le architetture imperialiste dell’aeroporto, con tanto di benvenuto nella Repubblica Popolare Cinese, il controllo rigido delle guardie, l’anonimo muoversi di automezzi modernissimi, ma l’aria che si respira è strana. Non semplicemente rarefatta. Giunti a Lhasa, quota 3680, capitale del Tibet, la prima impressione è di avere sbagliato paese. Culturalmente parlando. Ampissime strade alberate a doppia carreggiata, con larghe piste ciclabili ai lati, marciapiedi finemente lastricati, ideogrammi cinesi di forma cubitale affissi in ogni parte, palazzi che di tibetano hanno ben poco, monumenti sfarzosi e mastodontici, tutto questo ci porta con l’immaginazione come fossimo capitati per le strade di Pechino.
Il primo Hotel che ci apre le porte è picchettato da una sentinella immobile. Imperturbabile, con un veloce movimento degli occhi, segue l’entrata del nostro bus. L’albergo è un grande parallelepipedo rivestito di marmo che ricorda per forme e contenuti lo stile occidentale imposto dal granturismo. Nel tardo pomeriggio, grazie all’intervento di Daniele e Giampaolo, i nostri due leader, scappiamo subito salvandoci da tre giorni di anonimato. Il nostro nuovo alloggio è nella città vecchia, a cinque minuti dal Johkang, il centro sacro più venerato dell’intero Tibet. Per quanto disillusi sulle ingerenze del ministero del turismo, ammiriamo gli splendidi arazzi e i mobili multicolori che adornano l’arredamento del Dhood Go Hotel.
L’indomani ci aspetta il Potala, la residenza del Dalai Lama, in esilio dal 1959. In che modo potrà tornare la coraggiosa guida spirituale e temporale del popolo tibetano al suo paese quando di fronte al proprio palazzo, una delle più meravigliose architetture del mondo, gli hanno costruito una piazza di marmo luccicante, esorbitante, esagerata, con una bandiera rossa al centro invece della variopinta bandiera del Tibet, con un obelisco militare postmoderno a ricordare l’onnipresenza di un potere intransigente? Come potrà?
Il pomeriggio del secondo giorno, dopo il Potala, iniziamo i primi test medici coordinati dalla dottoressa Paola.
Una passeggiata di tre ore fino al monastero di Sera ci prepara, oltre che per i dolorosi prelievi arteriosi e le misurazioni necessarie al protocollo medico, all’intensissima ultima giornata. Di primo mattino visitiamo il monastero di Drepong, che insieme a quello di Sera sono i due più grandi monasteri della Terra. A differenza del Potala, e seppur in numero ridotto rispetto ai fasti di un tempo, qui i monaci sono autentici e non ci sono infiltrati per ragioni politiche. Descrivervi in poche righe queste complesse comunità religiose e i loro segreti dignitosamente conservati nelle migliaia di stanze e cappelle votive, non è possibile. Ma il muoversi con meraviglia dei miei compagni, il loro ascoltare con attenzione le parole della nostra guida, il nostro fotografare più o meno opportuno, quasi a rubare segreti difficilmente riproducibili dalla memoria, soggiogati dall’incontrare l’arte orientale in prima persona, io credo creerà dei forti sedimenti nei nostri ricordi che rifioriranno al nostro ritorno.
Un fatto, sottolineo. L’ultimo giorno a Lhasa, prima di visitare il Johkang, per rispettare i test medici siamo saliti all’eremo di Choding. L’ascesa di 400 metri di dislivello sopra Sera ci ha, per così dire, preparati ad entrare in un luogo molto diverso da quelli finora visitati. Non più turisti. Un luogo appartato da cui si dominava la piana di Lhasa. Due soli monaci, in ritiro spirituale. Ci hanno mostrato le loro stanze. Povere ed essenziali, ma sempre decorate da raffinate pitture e statue sacre. Io e Marianna, quasi per sbaglio, per invito del custode, siamo entrati, uno alla volta, nella Grotta dell’Eremita. Una sola candela illuminava un piccolo Budda e il suo calore faceva girare una specie di ombrella di preghiera. Nell’oscurità della grotta, il punto di massimo distacco dal mondo, sembrava aleggiasse il mantra Om Mani Padme Um. Probabilmente era la mia mente, suggestionata, o le mie labbra, emozionate, che facevano vibrare nel mio cuore tale sensazione.
Usciti alla luce e saliti sul tetto dell’eremo a contemplare la valle, un nuovo e ultimo sguardo gettammo su Lhasa. E’ difficile essere religioso, ma se per “religione” intendiamo il cercare le “reliquie” del nostro animo, nel profondo del nostro cuore, ascoltandoci senza lasciare che la vita fugga via alla deriva, allora molti di noi al ritorno da questa esperienza tibetana potranno dire di essere stati, almeno per qualche momento, religiosi. Tashi delek.
Alberto Peruffo