La cura buona e giusta
Un programma di formazione e informazione per promuovere l’appropriatezza delle cure, cioè personalizzare l’assistenza ai pazienti con diabete in base ai loro bisogni e alla loro peculiarità, innalzando la qualità dell’intervento diabetologico
Tempestiva sì, ma anche appropriata. Così deve essere una buona diabetologia: capace di individuare al più presto la patologia, ma anche in grado di dare a ogni singolo paziente la terapia giusta per lui, senza schematismi e con attenzione primaria alla persona. Sulla base di questo assunto, l’Associazione medici diabetologi, dopo avere lanciato nel 2009 la campagna “Subito!” per incoraggiare la diagnosi e l’intervento terapeutico precoci, ora propone, come “naturale prosecuzione”, il progetto “Nice”, per promuovere l’appropriatezza della cura.
Nice (parola inglese che significa “bello, simpatico, piacevole”, ma anche “ben fatto”) rappresenta qui l’acronimo per “need is the core of effectiveness”, cioè il bisogno (del paziente) è l’essenza dell’efficacia (della cura). Amd intende infatti attuare un programma di formazione, educazione e comunicazione per migliorare le competenze dei professionisti, dell’organizzazione dell’assistenza, della gestione della patologia, al fine di rispondere al meglio ai bisogni della persona con diabete.
Gli Annali con cui la Amd fotografa, anno dopo anno, l’assistenza diabetologica in Italia ci dicono che dal 2004 al 2011 le cose sono progressivamente migliorate (come indica l’innalzamento dell’indice di qualità, il cosiddetto Score Q), ma, sottolinea il presidente dell’Associazione Antonio Ceriello, “c’è ancora molto da fare per elevare il livello della cura”. “Nice” si propone appunto di contribuire a questo obiettivo.
Continua Ceriello: “Siamo ancora lontani dal controllo metabolico auspicabile”. I dati più recenti mostrano infatti che oltre la metà delle persone con diabete non rispetta i valori standard di emoglobina glicata; molte persone anziane si curano con farmaci non adeguati, che ottengono sì l’effetto di abbassare la glicemia, ma aumentano pericolosamente la possibilità di crisi ipoglicemiche. L’appropriatezza a cui mira il progetto Nice deve saper intervenire proprio su carenze come queste.
Spiega ancora il presidente dei diabetologi: “Essere buoni medici per noi vuol dire essere specialisti di diabete a un livello molto alto, allo scopo di essere in grado di dare la cura migliore a ogni paziente. Non sempre, infatti, la prescrizione corretta corrisponde alla terapia più appropriata per la persona che abbiamo di fronte”. La filosofia del progetto consiste dunque nel mettere in condizione il diabetologo (e l’organizzazione entro la quale opera) di proporre al singolo una cura che tenga conto dei suoi bisogni individuali e della sua capacità di correggere e modificare il proprio stile di vita.
Ottenere un metabolismo corretto e tenere sotto controllo le complicanze è indispensabile, ma non basta, come sintetizza Nicoletta Musacchio, vicepresidente di Amd. Occorre fare un passo in più per raggiungere l’obiettivo di una cura “sobria, rispettosa, giusta”. “Saremo tanto più efficaci -precisa Musacchio- quanto più faremo una medicina centrata sulla persona, perché nel diabete non c’è una cura standard che va bene automaticamente per tutti e non si possono protocollare le persone”.
Un esempio chiarificatore del concetto si ricava dalla considerazione che, tra gli anziani con diabete di oltre 75 anni, uno su tre, nonostante valori di glicosilata a target, è in cura con una classe di farmaci ipoglicemizzanti che comportano elevato rischio di ipoglicemia e delle sue conseguenze.
Ebbene, commenta Musacchio, “le crisi ipoglicemiche influiscono in maniera significativa sulla qualità di vita degli anziani e si sospetta che una percentuale elevata di fratture del femore in queste persone sia riconducibile a episodi di ipoglicemia. La cura per il diabete destinata a queste persone deve tenere conto dell’età e della loro fragilità, garantendo, insieme all’efficacia, la tollerabilità e la compliance, ossia il fatto che la persona prenda o sia in grado di prendere i farmaci e di seguire i consigli dietetici e di stile di vita. In buona sostanza, non solo una cura adeguata, ma una cura giusta. Noi dobbiamo fare una medicina di accompagnamento, che da un lato guardi sempre alle esigenze della persona e dall’altro renda attivo il paziente nella gestione della sua condizione”.
Aggiunge Roberta Assaloni, coordinatrice del Gruppo appropriatezza della Amd: “Il diabete è caratterizzato da una grande complessità. Il team diabetologico deve perciò seguire il paziente, comprenderlo nel suo peculiare contesto personale, sociale, esistenziale e nelle sue necessità e fragilità, per essere in grado di fissare obiettivi glicemici personalizzati secondo età, profilo metabolico, eventuali complicanze, ma anche modi di vita, situazione familiare, rapporti con il medico di base eccetera”.
Sintetizza Ceriello: “Sono chiaramente emersi, da alcuni dei maggiori studi scientifici sul diabete (Ukpds, Accord, Advance e altri) gli enormi vantaggi di una cura precoce e intensa: trattare in maniera rigorosa il diabete con almeno cinque anni di anticipo può diminuire le complicanze di oltre il 40%. Tuttavia, agire subito è utile, ma insufficiente, se non fatto in modo appropriato. Le linee guida vanno benissimo, ma le scelte sul paziente devono essere mirate sulla situazione individuale, perché, secondo Amd, la gestione appropriata del diabete è una gestione personalizzata del diabete. E i protocolli ospedalieri ci lasciano spazio per agire in questo senso”.
La necessità di un salto di qualità nella cura del diabete ha anche un importante risvolto economico, che si palesa chiaramente quando si pensa che oggi il costo annuo per le cure arriva a 11 miliardi e che tra vent’anni avremo probabilmente il 40% di casi in più rispetto al 2000. Infatti, in base a dati resi noti dalla International diabetes federation (Idf), nel 2000 in Italia c’erano 3,125 milioni di persone con diabete, oggi se ne stimano 3,626 milioni e nel 2035 si prevede che saranno 4,354 milioni. Secondo l’Osservatorio Arno Diabete (Rapporto 2011), quegli 11 miliardi di spesa derivano per il 57% dai ricoveri ospedalieri legati alle complicanze, per il 29% dai farmaci antidiabetici e per la cura di condizioni concomitanti come ipertensione o ipercolesterolemia e per il 14% dalle prestazioni specialistiche.
Arricchisce il quadro la vicepresidente Musacchio: “Se prendiamo a esempio i dati dei consumi sanitari di Regione Lombardia, il 27,5% della popolazione costituita da malati cronici, uno su cinque dei quali con diabete, assorbe da solo circa il 70% dei costi della sanità”. Un dato preoccupante, che chiama direttamente in causa la diabetologia, dato che il diabete è riconosciuto dall’Unione europea come paradigma delle patologie croniche sia dal punto di vista del genere di problemi che pone sia da quello del tipo di soluzioni da ricercare. Una cura più appropriata, migliorando la salute delle persone, avrebbe anche una positiva ricaduta sulla riduzione degli attuali alti costi del diabete.
Il progetto di formazione dell’Amd ha l’ambizione di riuscire a coinvolgere non soltanto i diabetologi, ma tutte le parti interessate: le direzioni sanitarie, gli altri specialisti e operatori sanitari, i medici di medicina generale, le stesse persone con diabete e le loro associazioni. Esemplifica in proposito Ceriello: “Saranno realizzati strumenti che facilitino la cura appropriata e giusta, da condividere con chiunque sia coinvolto nel processo di assistenza e trattamento della persona con diabete”. I gruppi di lavoro dell’associazione si sono già messi all’opera, il coinvolgimento degli altri attori dell’universo diabete nel progetto Nice è già positivamente avviato, ma, secondo il presidente dei diabetologi italiani, c’è un ulteriore indispensabile passo avanti da compiere: “Il salto da fare ora è riuscire a parlare con la politica, con i decisori. Dobbiamo farci capire da loro, usando il loro linguaggio, perché altrimenti le società scientifiche, anche se presentano proposte credibili, fanno fatica a farsi ascoltare. Ci servono quindi interlocutori politici che ci permettano di concretizzare le nostre richieste”.
Meglio degli Stati Uniti
Gli Annali elaborati da Amd su assistenza e cura del diabete riportano che più della metà degli italiani con diabete ha valori di emoglobina glicata (o glicosilata) più elevati di quelli fissati dalle linee guida (6,5-7%): la percentuale dei fuori norma supera il 55%. Una cifra non soddisfacente, che deve essere abbassata, come afferma la stessa Associazione medici diabetologi.
Tuttavia, vale la pena di segnalare che, in un Paese evoluto come gli Stati Uniti, la situazione non si presenta affatto migliore. Anzi, al contrario. Sono gli stessi enti istituzionali americani -National Institutes of health (Nih) e National committee for quality assurance (Ncqa)- ad attestare che le persone con diabete con emoglobina glicata superiore all’8% sono tra il 40 e il 50%: in Italia, invece, quella soglia è oltrepassata nel 27,2% dei casi. In Usa, inoltre, tra il 20 e il 30% degli americani affetti da diabete non scende sotto il 9,5%.
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