È il 21 settembre 1998. Su Il Corriere della Sera del lunedì appare un articolo col seguente titolo: “Corona di Miss America a una ragazza diabetica”. Nella foto, splende una Miss America sorridente. Indossa un tubino nero e saluta il pubblico entusiasta.
Il 21 settembre 1998, Marta ha 15 anni. Il diabete è apparso nella sua vita da 5 anni. Per essere precisi, il 13 febbraio 1993. Alcune date, anche non volendo, restano indelebili.
Dall’esordio, fino a quel giorno, Marta ha attraversato fasi discordanti e completamente opposte tra di loro.
Una prima, quasi euforica, iniziale: “ero al centro dell’attenzione di chiunque”, fino ad arrivare a un cambio netto, radicale: “con l’andar del tempo è diventato sempre più difficile. Nell’adolescenza falsificavo le glicemie. Non volevo essere giudicata”.
L’articolo in questione giunge all’attenzione di Marta proprio in quegli anni.
Me la immagino mentre si immerge nella lettura del piccolo trafiletto. Mi immagino i lineamenti prima distesi, che man mano si induriscono, le sopracciglia che si inarcano, gli occhi che si allargano.
A volte quando ci sentiamo indignati, ci fermiamo a quello, a provare un sentimento e poi farlo scivolare via, a dimenticarcene, a sotterrarlo, laddove, non possa più farci male.
Chissà se questa idea avrà sfiorato anche Marta, o se l’irruenza dei suoi 15 anni e la saggezza data da qualcosa di esperito sulla sua pelle – da quegli aghi che le hanno punto le dita e da quelle glicemie da correggere – hanno avuto la meglio fin dall’inizio.
È il 1998, per molti – forse la maggioranza – il diabete è ancora qualcosa di oscuro, di difficile comprensione, per altri è un tabù, un discorso che è meglio evitare. L’autore del pezzo, ad esempio, lo definisce un handicap.
Marta si mette alla scrivania e per chiarire le cose, a lui, e a tutti, scrive una lettera a Indro Montanelli, nella quale esprime il suo rammarico nei confronti dei toni e delle parole utilizzate in quell’articolo, sottolineando il suo desiderio di non incorrere in pietismi quando si parla di diabete e di non considerare un diabetico un “caso eccezionale”.
Indro Montanelli le risponde il 5 ottobre 1998, sempre su ll Corriere della Sera del lunedì e le dà ragione.
Il 6 ottobre 1998, ne parla anche Il Corriere, quotidiano della città e della provincia di Como.
C’è la foto di Marta sorridente tra la seconda e la terza colonna.
Marta mi ha inviato un file con tutto lo storico di quanto accaduto. La sua lettera, scritta a macchina, mi ha catapultato in un mondo lontanissimo, dove le parole non avevano il paracadute del “copia e incolla” e si cercava, per questo, di scriverle bene, e di metterle da subito al posto giusto.
Quello che Marta aveva già capito da giovanissima è la stretta correlazione tra l’essere e il fare.
Quella lettera è stato il suo fare, attraverso il quale raccontava il suo essere; e nel suo essere era incluso il diabete.
Oggi è una giovane maestra di 36 anni, sposata da 12.
Durante questa quarantena ha chiamato costantemente i suoi alunni e non per raccomandarsi di fare i compiti o di studiare le lezioni impartite a distanza.
Li chiamava per dire loro che le mancavano e che non vedeva l’ora di riabbracciarli.
“Mi interessa che loro sappiano che sono importanti. Non credo in una scuola performativa, credo nella presenza. Cosa ce ne facciamo di una scuola che trasmette informazioni se poi manca la socialità, lo stare insieme?”.
Il giudizio le pesa ancora, come quando di anni ne aveva 15. Ogni volta che devo andare a fare il controllo della glicata entra in uno stato d’ansia e agitazione già dalla settimana prima: “Con la glicata a 7, la volta scorsa, esultavo, perché la volta prima era a 7,5… Siamo sempre legati ai numeri che sono una valutazione costante. Ecco perché c’è un rapporto di amore e odio. Un 7 non è un 7 per tutti. Non ha lo stesso valore. Ma è un risultato a cui tendere, senza incagliarsi.
E la stessa cosa vale per la vita che non è una tavola piatta, ma è fatta di onde che vanno e vengono e che, per forza, devono essere cavalcate”.
A cura di Patrizia Dall’Argine