Salita al cielo e ritorno

Salita al cielo e ritorno

“Bip … Bip … Bip” ore 23.50, 2 ottobre 2002, Cho Oyu, 8201 metri, Tibet- Cina, campo 2, quota 7165 metri (rilevazione GPS). Mi sveglio dopo qualche ora di sonno rubata all’azione. Il termometro segna -15° C all’interno della tenda: evidentemente il buon giorno si vede dal mattino. Il fornellino a gas fa le bizze: si accede e si spegne di continuo, scopro che la tanto decantata miscela di gas butano-propano con il freddo non funziona come dovrebbe. Non oso ancora uscire dal sacco a pelo, la volta della tendina è incrostata da un paio di centimetri di ghiaccio frutto della condensa prodotta dal calore dei corpi durante le ore di attesa. Paolo, il mio compagno di ascesa, non ha dormito un solo minuto: è teso come la corda di un violino, come d’altro canto lo sono anch’io. Provo la glicemia, il glucometer, a differenza del fornellino, funziona, 156 mg/dl di glicemia.
Con estrema lentezza ci prepariamo, ci vestiamo: quattro strati di indumenti a protezione delle gambe e sei per il busto; calziamo scarponi, imbragatura e ramponi e finalmente riusciamo a stillare un po’ di neve che beviamo con l’aggiunta di una bustina di sali. E’ il grande giorno, meta di un anno e mezzo di intenso lavoro, di ricerca di sponsor per coronare questo sogno che ora, incerto, mi fa vacillare: resto o parto? Per Vittorio e Mauro l’opportunità di salire è già sfumata, questo è l’ultimo treno prima del rientro definitivo a casa. Mangio qualcosa e mi inietto 7 unità di insulina actrapid: gesti rituali, ripetuti infinità di volte. Alla fine mi impongo di non pensare e così si inizia la salita. Ore 1.25, giovedì 3 ottobre: porto con me la macchina fotografica (nel caso di arrivo in vetta) un termos di thè non zuccherato, qualche barretta di cereali, il gel con maltodestrine, tre diversi tipi di insulina: istantanea (tipo lispro per intenderci), rapida e intermedia e inoltre il glucometer con una decina di strisce reagenti, tutti riposti in una tasca quasi a contatto con il corpo per evitare spiacevoli inconvenienti di congelamento degli stessi.
Il trauma iniziale è atroce: senso di soffocamento, mancanza di ossigenazione cronica e muscoli impietriti dal gelo compiono il resto. Per fortuna non siamo super eroi e l’adattamento della macchina uomo fa miracoli: dopo una mezz’ora la situazione migliora, ci si scalda leggermente e le gambe girano. Dopo il pendio nevoso iniziale, che conduce direttamente al campo 3, raggiungiamo il gruppo di tre compagni che ci precedeva: ore 4.45, quota 7560 m. circa, 156 mg/dl di glicemia ed un sorso di thè. Il freddo si fa sentire, il semplice gesto di fare pipì diventa un’impresa, comunque sono tranquillo perché significa che non sono ancora disidratato. Barba ghiacciata e mento insensibile: passamontagna, berretto di lana e due cappucci non riparano a sufficienza e allora mi rendo conto di quanto soffino forte i famosi jet stream (vento d’alta quota). Buio più completo ed estraniazione da se stessi. E’ una tecnica che adotto quando la fatica fisica o le condizioni ambientali sono frustranti e di difficile gestione da un punto di vista psicologico. Procedo con lo stesso passo del mio compagno, davanti a me, ad una cinquantina di metri, avanza Giampaolo con la consueta determinazione che lo contraddistingue, non per niente è il capo spedizione. Gli altri due compagni abbandonano la partita: ore 5.30, quota 7600 metri circa. In questa montagna così frequentata ci ritroviamo all’improvviso in uno sparuto manipolo di alpinisti: noi tre italiani ed un medico spagnolo che sale solitario leggermente attardato dietro di noi. Affrontiamo la fascia rocciosa, un salto di roccia di cinquanta metri attrezzato con corde fisse (corde che vengono fissate, solitamente all’inizio di ogni nuova stagione alpinistica, per permettere di superare più agevolmente i punti difficili). Senza jumar (attrezzo metallico che si fa scorrere lungo le corde fisse per aiutarsi durante la salita dotato di un dispositivo grazie al quale può solo avanzare e non scivolare verso il basso), sarebbe tutto un altro salire ed un’altra difficoltà: altro che 8000 facile da dilettanti! Ogni quattro, cinque passi mi fermo e mi contorco per il dolore, sento il cuore ed polmoni scoppiare: non riesco a riprendermi; poi puntualmente riprendo. Altri cinque, dieci, quando va bene venti passi e poi stop.
Ore 7.30, quota 7950 metri. Il sole non vuole sorgere, provo brividi di freddo continuamente; qualche volta i denti partono a battere con una cadenza isterica; l’aria inaridisce le fauci in modo insopportabile: non riesco a provare la glicemia per la vaso costrizione dei capillari delle mani. Bevo ma non mangio nulla; per la prima volta scopro che tutte e tre i tipi di insulina sono congelate: spero che le boccette delle penfill non scoppino. Sono preoccupato ma continuo. Spesso i pensieri corrono a Sara, mia moglie: cerco un’idea che mi sostenga e mi spinga a compiere un altro passo e un altro passo ancora. Nei momenti di crisi si ricorre a qualsiasi stratagemma: allora, per caso, mi viene in mente un tormentone estivo, la canzone “salirò, salirò fino a quando sarò un punto nell’aria” e come un mantra inizio a ripeterlo. Finalmente arriva il sole: ore 9.30, spalla ovest del Cho Oyu, quota 8125 metri circa, – 34° C. Purtroppo anche Paolo, il mio compagno rinuncia: ha problemi di vista e non è più perfettamente lucido. Rimangono “due piccoli indiani”. L’agognata attesa del sole non produce gli effetti sperati: il calore corporeo è letteralmente sradicato dal vento, così ogni tentativo di controllare la glicemia è vano e le incertezze aumentano. Fino a quanto potrò resistere senza una nuova iniezione di insulina non so. Spingersi ancora, o rientrare. Mi separano gli ultimi 80 metri di dislivello dalla cima, dalla realizzazione del sogno. Indugio qualche istante, il medico spagnolo mi supera e vedo Giampaolo proseguire: decido anch’io di non mollare.
Ore 10.49, quota 8201 metri: mi fermo perché non si sale più; l’alternativa possibile è scendere dall’altra parte: non è il caso. Mi si para davanti, ad una trentina di chilometri in linea d’aria il profilo svettante del versante nord dell’Everest. Giampaolo mi abbraccia, lo ringrazio per aver tracciato pista, non ho la forza e la voglia di fotografare, ci pensa lui. Finalmente misuro la glicemia: 274 mg/dl. L’insulina non vuole saperne di sciogliersi. Ora è il momento di scappare giù il più in fretta possibile senza commettere errori nella discesa: l’obiettivo è raggiungere il campo 2 per sciogliere ed iniettarsi l’insulina.
Ore 13.50: lieto fine. Accolto dai compagni arrivo al campo 2: mi aiutano a spogliarmi, mi infilo nel sacco a pelo e nel giro di una decina di minuti ogni preoccupazione si dissolve. Pur essendo arrivato con una glicemia di 339 mg/dl nel giro di un’ora l’equilibrio glicemico si ricompone. Bevo, bevo e poi stanco mi assopisco.

Marco Peruffo

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