Era la metà degli anni 70 – per essere più precisi il 1976 – quando negli Stati Uniti veniva trasmessa la prima stagione di una serie televisiva, nota al pubblico come “La donna bionica”. Alla protagonista, Jaime Sommers – interpretata da una biondissima Lindsay Wagner – vengono sostituite alcune parti anatomiche con arti bionici (braccio e orecchio destro e entrambe le gambe).
Jaime, com’è facile immaginare, diventa piuttosto invincibile a questo punto. Dotata di una nuova forza sovrumana può sollevare pesi inauditi, accartocciare acciaio, spostare macigni, rompere a gomitate porte blindate e ascoltare conversazioni private che avvengono a centinaia di metri da lei.
Essere donna bionica non è affatto male. Ciò che è stato perso è stato migliorato attraverso la tecnologia. Ora Jaime assomiglia tanto a una super eroina e alle super eroine si vuol bene per forza. Si vuol bene sempre.
Mi sono andata a rivedere la sigla de “La donna bionica” e ho pensato: Chissà com’è avere un corpo che segue ogni tua proposta, ogni tua decisione, senza opporre resistenza, senza sbottare, senza faticare, senza fallire.
Un corpo così vicino alla mente tanto da farli apparire costantemente, inesorabilmente allacciati, coesi, fusi.
A queste cose ci penso spesso, soprattutto quando il mio corpo non segue in azione ciò che io formulo chiaramente in pensiero. Non capita sempre, ma abbastanza da farmi ricordare che ho una malattia cronica e che ci devo convivere.
Oppure, mi capita di pensarci quando leggo una frase come questa, sbirciando il profilo della persona che sto per intervistare: “Chi ha la salute è padrone del mondo e non lo sa”.
Ecco, mi si spezza il fiato in gola.
È proprio così, hai ragione, Sofia.
Sofia, o meglio “la donna bionica”, così come è conosciuta, dai più, sui social.
La parte bionica di Sofia, rispetto alla Jaime qui sopra, non riguarda però le sue gambe, il suo braccio o il suo orecchio. Riguarda, invece, il suo pancreas che lei stessa definisce “esterno al suo addome”. Un pancreas fuori che si fa notare: “Mi sento un robot: vibro, suono…”. Sensore e microinfusore al posto di un organo.
La parte bionica di Sofia, rispetto alla Jaime qui sopra, non toglie pensieri, ma li amplifica: “Se chiedi a un diabetico di segnare su un foglio quante volte pensa alla sua patologia in una giornata, ti risponderà che sono tantissime. Non hai mai una pausa, perché non puoi permettertela”.
La parte bionica di Sofia, rispetto alla Jaime qui sopra, non ha a che fare con la forza, ma con una fragilità esibita, esposta, e in alcuni momenti della sua vita, molto difficile da digerire: “Mi sono ammalata a 21 anni. È stato un percorso non facile. Mi nascondevo, non facevo mai l’insulina in pubblico. Non volevo farlo pesare ad altri. Credevo fosse necessario superarlo in maniera autonoma. Non mi è mai piaciuto chiedere aiuto”.
Invece, un’analogia con Jaime c’è, e ha a che fare con la memoria rispetto alla vita pre-esordio: “Il mio cervello ha cancellato la vita di prima, nonostante abbia vissuto molti più anni da non diabetica. Non so a cosa attribuirlo, forse tutti questi calcoli hanno occupato tanto a livello di pensieri. Oppure riguarda le modalità del mio esordio. Ero andata in ospedale da sola, i miei erano via. Avevo 795 di glicemia. Mi avevano chiesto se avessi guidato per arrivare in ospedale e quando ho risposto di sì, mi hanno detto che era stata una scelta estremamente pericolosa: sarei potuta entrare in coma da un momento all’altro. È stato molto pensate sostenere una diagnosi così difficile da sola”.
Aspetta, prende fiato, poi continua: “L’accettazione parte da dentro. Fa tanto l’esempio degli altri. Ogni giorno vedere gli altri che fanno cose che vorrei fare io, mi aiuta a dire: allora ce la posso fare. Poi fa tanto male quando sei nei momenti più fragili della tua vita e il micro suona a ricordarti che il diabete è sempre lì, come al funerale di mia nonna. È dura. È frustrante. Ma credo vada ricordato che col diabete si può fare tutto. Bisogna amarsi tanto. Controllarsi, e poi si può davvero fare tutto”.
Anche un figlio. Sofia è mamma ora. Niente di più umano, niente di più bionico.
A cura di Patrizia Dall’Argine