Un “trattato di Kyoto” per il diabete

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INTERNATIONAL DIABETES FEDERATION

Un “trattato di Kyoto” per il diabete

Secondo la Idf, dopo la risoluzione dell’Onu, occorrerebbe un patto fra le nazioni, simile a quello firmato in Giappone per l’emergenza ambientale, che stabilisca obiettivi precisi per affrontare l’epidemia-diabete

La più grande epidemia nella storia dell’umanità. Addirittura in questi termini definisce il diabete il professor Paul Zimmet, direttore dell’International diabetes institute in un recente rapporto della International diabetes federation (pubblicato sulla rivista britannica “Diabetic Medicine”, sul numero di maggio 2007). In effetti, i numeri citati dal professore giustificano quell’espressione così forte: “Il diabete è responsabile di quasi 4 milioni di morti ogni anno -continua Zimmet- Con 246 milioni di persone diabetiche oggi e 380 milioni previsti per il 2025, si prepara a causare la bancarotta delle economie nazionali”.
Proprio perché la situazione è così preoccupante, il professor Zimmet considera “un enorme successo” la risoluzione dell’Onu che esorta i governi di tutti i Paesi a un’azione internazionale concertata per contrastare la diffusione del diabete attraverso lo sviluppo di grandi piani di prevenzione (ne abbiamo parlato su “Tuttodiabete” n. 1/2007).
Secondo il professor George Alberti, ex-presidente di Idf e co-autore (con Paul Zimmet e Jonathan Shaw) del rapporto, studi svolti in Paesi diversi come Stati Uniti, Finlandia, Cina, India, Giappone dimostrano con chiara evidenza che “i cambiamenti negli stili di vita (che implicano il mantenimento di un peso corporeo sano e la pratica di una moderata attività fisica) possono aiutare a prevenire lo sviluppo del diabete di tipo 2 in soggetti ad alto rischio”. Accanto a questo primo fronte, la Idf ricorda che è necessario concentrarsi anche sul corretto approccio alla salute della popolazione generale.
Naturalmente, si tratta di un lavoro non facile, perché nella società operano grandi forze che influenzano i comportamenti, le abitudini, i modi di mangiare e di vivere delle persone nel loro complesso. E spesso le spingono proprio nella direzione opposta a quella che sarebbe desiderabile dal punto di vista della buona salute.
In proposito il professor Avi Friedman, docente di architettura all’Università di Montreal, dà un giudizio piuttosto severo: a suo parere, sia pure involontariamente, le nostre autorità governative possono avere contribuito all’epidemia assecondando un modello di sviluppo che crea problemi sociali, nelle città innanzitutto. Le aree metropolitane sono cresciute disordinatamente e “senza attenzione alle strutture degli edifici, ai marciapiedi, alle piste ciclabili, alle corsie preferenziali per il trasporto pubblico, ai campi sportivi, ai luoghi di ritrovo, che sono essenziali e devono essere accessibili alle persone che vogliano mantenere un sano stile di vita”. Difficile dare torto al professor Friedman. Quante volte capita di chiedersi, per esempio, “Fare sport? Sì, ma dove? Sì, ma quando?”, constatando che le realtà urbane e i modi e tempi di vita che i cittadini conducono sembrano quasi concepiti apposta per sabotare e contrastare le esigenze di una vita sana.
Ecco perché la Idf lancia un appello per un’azione ad ampio respiro, che mobiliti tutti i settori della società: infatti, “i piani nazionali di prevenzione del diabete richiedono politiche coordinate e cambiamenti legislativi che tocchino tutti i campi, compresi quelli della salute, dell’educazione, dello sport. dell’agricoltura”.
La scelta è in capo ai responsabili politici, secondo George Alberti: “il diabete rappresenta già un alto costo sociale, sta a loro decidere se spendere sempre di più in cure e farmaci oppure investire in prevenzione, sostenendo il mutamento negli stili di vita della popolazione”.
Il professor Zimmet auspica quindi per il diabete un accordo internazionale che fissi obiettivi precisi e concreti, come quello sottoscritto a Kyoto in nome della difesa dell’ambiente. A patto, però -aggiungiamo noi- che, diversamente da quanto accaduto con il protocollo negoziato in Giappone nel 1997, tutti i governi siano davvero disposti a collaborare alla causa fino in fondo.