Cosa vogliono le persone con diabete da chi si prende cura di loro?

Mettere le necessità e le preoccupazioni dei pazienti al centro dell’intero processo di cura, attraverso una comunicazione ottimale con i professionisti sanitari. Perché questo avvenga è necessario dedicare una grande attenzione al rapporto con i professionisti sanitari: in effetti, instaurare una comunicazione bidirezionale efficace tra un paziente e il suo medico è un elemento essenziale per garantire prestazioni sanitarie di elevata qualità, e ciò riveste un’importanza particolare per chi ha il diabete. Questa malattia, infatti, richiede una serie di complesse attività di autogestione – come il monitoraggio dei livelli di glucosio, modifiche alla dieta e al livello di esercizio fisico, l’assunzione regolare di farmaci – spesso accompagnate da un aumento dello stress emotivo derivante dal doverle affrontare quotidianamente. Nonostante i notevoli progressi compiuti nelle terapie mediche, nelle tecnologie sanitarie e nell’assistenza disponibile oggi, infatti, la gestione del diabete continua ad essere una sfida complessa per molte persone, che coinvolge molti aspetti della loro vita.

L’importanza della comprensione

In media, le persone con diabete trascorrono solo lo 0,1% del loro tempo con i professionisti sanitari. Nonostante ciò, questi ultimi rivestono un ruolo cruciale supportare i processi di autogestione quotidiana di questa malattia. È proprio riguardo le sfide quotidiane derivanti dal convivere con il diabete che i pazienti desiderano di più essere visti, compresi e supportati: gli studi condotti per indagare la comunicazione tra pazienti con diabete e i propri medici hanno rivelato che i primi desiderano soprattutto che i secondi capiscano le difficoltà legate all’autogestione della malattia, riconoscendo che non è sempre facile seguire le complesse serie di indicazioni fornite dagli operatori sanitari. Inoltre, il diabete ha un impatto sociale ed emotivo significativo, e i pazienti si sentono spesso gli unici esperti della loro esperienza vissuta con la malattia. Da diversi studi invece emerge che l’assistenza clinica del diabete spesso viene ridotta alla sola dimensione biomedica, con il rapporto tra operatori sanitari e pazienti che si concentra principalmente sulla verifica di indicatori di rischio come l’emoglobina glicata, la pressione sanguigna, il colesterolo, i farmaci e la presenza di eventuali complicanze, senza prestare molta attenzione agli impatti psicologici e sociali della vita con il diabete o alle barriere psicologiche che ne ostacolano un’autogestione ottimale. Non solo: altri studi, sia qualitativi che quantitativi, hanno evidenziato l’impatto dello stigma (della condizione di diabete stesso, del peso, dei comportamenti associati alla malattia e allo stile di vita) nell’interazione con gli operatori sanitari durante gli incontri clinici; per esempio, una ricerca ha rilevato che circa il 30% dei pazienti con diabete era riluttante a discutere apertamente e sinceramente i propri comportamenti di autogestione con il proprio medico, per paura di essere giudicati negativamente, comportando una gestione della malattia nettamente peggiore. Insomma, una comunicazione efficace da parte dei professionisti sanitari, una cura centrata sulla persona e la presenza di decisioni condivise, sono tutti fattori associati a una maggiore soddisfazione dei pazienti diabetici, e quindi a migliori prestazioni sanitarie e a un minor rischio di complicazioni. Quindi cosa cercano le persone con diabete dai propri professionisti sanitari?

La ricerca

Un recente studio condotto da ricercatori australiani ha voluto indagare quello che le persone con diabete di tipo 1 o di tipo 2 vorrebbero che i loro professionisti sanitari comprendessero riguardo la loro vita quotidiana. Per farlo, sono state raccolte e analizzate le oltre 1300 risposte alla domanda “Cosa vorresti che il tuo medico capisse sulla tua convivenza con il diabete?“, che faceva parte di Diabetes Miles-2, un’indagine australiana che aveva lo scopo di valutare gli aspetti psicologici e comportamentali legati al diabete.

L’eterogeneità e il gran numero di desideri insoddisfatti emersi dallo studio indicano che le persone con diabete non si percepiscono sempre al centro del loro processo di cura (“Credo che il professionista sanitario medio abbia una scarsa comprensione della vita con il diabete…la discriminazione è alimentata dagli operatori sanitari che pongono l’accento sul peggiori scenari di casi clinici e non promuovere l’idea che un diabetico possa essere sano e non rappresentare un rischio per la società”, è la risposta di un uomo di 53 anni con diabete di tipo 1). Tra le persone con diabete di tipo 2, molte hanno lamentato che i loro professionisti sanitari fornivano consigli generici, soprattutto riguardo ai cambiamenti nello stile di vita. Le persone con diabete di tipo 1, d’altra parte, desideravano che i loro professionisti sanitari comprendessero che la gestione del diabete non si riduce solo al controllo dei livelli di glucosio nel sangue e che volevano essere trattate come individui unici. I pazienti hanno riferito che le loro interazioni con gli operatori sanitari erano ancora dominate dal modello tradizionale di cura piuttosto che da un approccio collaborativo e con limitate opportunità di discutere questioni sociali e psicologiche legate al diabete.

Tuttavia, come dimostrato da un terzo dei partecipanti che hanno condiviso esperienze positive con i loro medici, molti di questi bisogni possono essere soddisfatti e dipendono in larga parte dalla formazione e dall’atteggiamento degli operatori sanitari. In particolare, i partecipanti apprezzano gli operatori sanitari empatici, che hanno una forte comprensione del diabete e delle sfide legate alla gestione di questa condizione (“Sono molto contenta del mio medico di famiglia, perché ha un atteggiamento molto positivo nei confronti del diabete e mi ha incoraggiato a considerarlo curabile”, ha scritto una donna di 52 anni con diabete di tipo 2; ), che li vedono come persone anziché come un ‘numero’ o un ‘manuale’ da seguire, che supportano l’autogestione, utilizzano un linguaggio che valorizza e non giudica, e che ascoltano prima di fare raccomandazioni. Per gli intervistati era importante che i medici capissero che a volte le raccomandazioni cliniche sono più facili a dirsi che a farsi e che spesso ci sono più fattori che incidono sulla difficoltà di attuare le tecniche di autogestione (“Esistono cose legate agli ormoni, alla salute mentale, al dolore che hanno effetti sul monitoraggio del glucosio, ma alcuni medici sembrano ignorarlo”, dice una donna di 28 anni con diabete di tipo 1).

Alla luce di questi risultati, i ricercatori sottolineano come sia necessario, per migliorare la qualità della cura del diabete, fornire ulteriore formazione e supporto agli operatori sanitari in questo senso, considerare i bisogni insoddisfatti espressi dalle persone con diabete e coinvolgerli nello sviluppo di servizi di assistenza clinica per garantire una risposta adeguata alle loro esigenze.

A cura di Chiara di Lucente


Fonti:

Litterbach E, Holmes-Truscott E, Pouwer F, Speight J, Hendrieckx C. ‘I wish my health professionals understood that it’s not just all about your HbA1c !’. Qualitative responses from the second Diabetes MILES – Australia (MILES-2) study. Diabet Med. 2020 Jun;37(6):971-981. doi: 10.1111/dme.14199. Epub 2020 Feb 5. PMID: 31802530.